L’officina

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di Giuseppe O. Longo

 

 

L’officina occupava tutto il cascante edificio che sorgeva nella piazzetta appena fuori città, dove il canale che muove le macine del molino Bedei entra nel fornice oscuro di via Gualtieri per uscire a valle chissà dove. Noi bambini, tornando da scuola, ci fermavamo un po’ timorosi davanti all’immenso portone color rosso sangue dell’officina e ne ascoltavamo il rombito sordo, che avvertivamo più con i piedi e le gambe che con le orecchie. Qualcuno ne aveva visto l’interno, l’impiantito di terra battuta, i plinti che sorreggevano le ruote mosse da corregge di cuoio estenuato che si perdevano nell’oscurità del soffitto altissimo. Questa intricata congerie di macchinismi era mossa da una colossale vaporiera alimentata a carbone da quattro fochisti. Gli operai erano tutti vecchi, alcuni vecchissimi, addirittura decrepiti, e si movevano qua e là lenti ed esitanti. Quando si avvicinavano alla loro postazione per lavorare un pezzo si coprivano il volto con maschere di quarzo e di cartone per evitare la pioggia di scintille che scaturiva dalle mole e per ripararsi dal cociore intenso che emanava da quella massa di rotismi, ingranaggi, ruote e catene. Si raccontava che gli operai erano agli ordini di un sovrastante più vecchio dei più vecchi di loro, che se ne stava rintanato in una gabbia di vetro fumé dalla quale, senza esser visto, poteva controllare tutti i lavoratori. Il gabbiotto, collocato in alto, al culmine di una scala di legno malferma e scricchiolante, era proprio sopra la macchina a vapore, quindi era sempre avvolto in una foschia densa e maleodorante. Alcuni dicevano che in realtà il soprastante dormisse tutto il giorno, ma nessuno ne era sicuro. Nell’officina si producevano oggetti strani: piccoli automi antropomorfi, macchinette minime, congegni di altissima precisione, meccanismi delicati, dispositivi micrometrici di misura, robottini umanoidi: e in effetti nelle povere case del quartiere periferico adiacente all’officina si ritrovavano ogni tanto minuscoli apparecchi che provenivano di certo dall’officina. Nascosti nelle credenze o sotto i letti vivevano per esempio golem esigui, capaci tuttavia di sostenere una conversazione su argomenti sapienziali o astrologici. Spettacolari erano certe scatole magiche, dotate di un foro attraverso il quale si potevano contemplare paesaggi esotici, continenti lontani o pianeti alieni, e si diceva che coloro che si lasciavano incantare da queste insolite visioni ne ricavassero un piacere indescrivibile, che poteva trascinarli nel gorgo dell’ebetudine. Noi bambini eravamo appena consapevoli delle meraviglie che uscivano da quel luogo e dell’incantesimo che esercitavano sugli abitanti di quel rione periferico. Quando verso sera gli operai lasciavano il lavoro e tornavano alle loro case su biciclette sgangherate o su lenti tricicli sbarellanti, ci adunavamo sulle prode erbose del canale, tra le macine abbandonate. Da una chiavica fluivano nell’acqua torbida i liquami e gli scarti dell’officina: pezzetti di acciaio cromato, frammenti di lantanio, schegge di diaspro, rotismi spezzati, filamenti biancastri di materia organica che aderivano a zampe di rana o a pellicce di ratto. Contemplavamo quella scolatura eterogenea e vagamente raccapricciante finché all’imbrunire udivamo i lunghi richiami delle madri che ci aspettavano per la cena. Una volta alcuni giovanotti del quartiere decisero di esplorare il corso sotterraneo del canale. Muniti di stivaloni, di torce e di corde si avviarono alla volta del fornice. Sulle rive del canale si era radunata una folla silenziosa che sembrava disapprovare quella decisione. Le donne, mute, dolenti, funeste, contemplavano i giovani arditi con occhi che molto avevano pianto nei giorni e nelle notti. Portavano in mano alcuni congegni prodotti dai vecchi artigiani, e in silenzio li protendevano, piccoli, quasi invisibili, verso i loro figli che si addentravano nell’oscurità minacciosa, ma i figli non si arrestarono: con spavalderia entrarono nell’ombra e nessuno li vide mai più.