Una vita in secca

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Una vita in secca, un romanzo di Aljoša Curavić

di Walter Chiereghin

 

Naturalmente, un manoscritto» titola così Umberto Eco la sua premessa al Nome della rosa e pare essere quasi una convenzione, nel patto narrativo tra scrittore e lettore, la supposta esistenza di un testo – normalmente pervenuto attraverso tortuosi eventi e fortuite circostanze nelle mani dell’autore – che può avvalersi così di un preteso attestato di autenticità nell’invenzione della sua finzione. Espediente usato, oltre che nel romanzo di Eco, per esempio, anche nei Promessi sposi, o nella Taverna del doge Loredan di Alberto Ongaro. Adesso utilizzato anche da Aljoša Curavić in Una vita in secca, ma le analogie con gli altri tre illustri precedenti terminano qui.

Se è difatti vero che la vicenda parte dal memoriale romanzato di un medico veneziano di origini istriane sparito in un misterioso disastro aereo, documento pervenuto a un suo amico di New Orleans, le analogie con i tre romanzi citati si fermano qui perché il libro di Curavić procede poi in una forma estremamente originale, disarticolando la narrazione fino al punto di far quasi confondere la forma romanzo in una sorta di raccolta di racconti, nei quali soltanto il riproporsi dei medesimi personaggi che si manifestano in un procedere cronologicamente abbastanza ordinato ricorda al lettore che è in presenza di un’opera fortemente unitaria e tuttavia complessa, come del resto è l’identità dell’autore. Aljoša Curavić, classe 1960, giornalista, caporedattore a Radio Capodistria, è un cittadino sloveno, con cognome croato, di nazionalità italiana. Dati anagrafici sufficienti per tracciare un profilo personale complicato, che si riflette, nella sua complessità identitaria, anche nell’opera letteraria, che in questo romanzo assume particolare pregnanza, al punto che esso risulta essere il racconto di una vita vissuta fra le risacche linguistiche e culturali di due mondi» (p. 9). Ecco, è in questa confessione, posta quasi in esergo del volume, che inizia a profilarsi l’ipotesi che il vero protagonista non sia Luca Sinicovich, il redattore del memoriale, né il suo alter ego Davide Santin, che agisce all’interno del testo, e neppure Johnny K. Paries di New Orleans, che per primo legge il malloppo: ciò di cui si parla nel libro di Curavić è la frontiera, il confine, con la risacca, appunto, dei suoi avanti-indietro sulle terre dell’Istria, che nel corso di un secolo ha visto succedersi cinque organizzazioni statuali diverse, nell’incontro e nello scontro di tre lingue differenti, quattro anzi, considerando pure il tedesco, per non parlare dei dialetti.

C’è una metafora che rincorre se stessa nel libro, quella appunto della risacca, della secca presente fin dal titolo, di un mare che si ritira lasciandosi dietro fango, detriti e pozze, un mare che è a sua volta esplicitamente metafora di un confine con la sua linea d’orizzonte, l’acqua che reca morte e distruzione, dall’uragano Katrina in Louisiana, a un 6 novembre istriano quando molti fiumi ruppero gli argini e sconquassarono e funestarono molte città. Le pianure affogarono nella mota. Il respiro cupo delle viscere della terra raggiunse anche Castello […]» (p. 46).

Castello è il nome della cittadina costiera nei pressi del confine con l’Italia, un nome immaginario e rigorosamente bilingue: Castello/Kaštel, da quando è diventata jugoslava e poi slovena, dopo esser stata austriaca e italiana. Città di mare, ma anche di acquitrini e di saline, nelle aree bonificate nelle quali si è insediato un porto importante, fino a diventare più esteso del centro cittadino, il più importante porto (ma anche l’unico) della Repubblica slovena. Dalle sue rive, dalla torre rossa costruita ai tempi del regime jugoslavo (definito da Curavić «l’impero degli Uguali») è possibile scrutare l’arrivo o il distacco da moli e banchine delle grandi navi, come avvenne nel dicembre del ’58, quando la prima nave raggiunse il porto nuovo di zecca di Castello, ricordato in una pagina indimenticabile (la 55), che solo per ragioni di spazio non mi è possibile citare per intero, oppure l’approssimarsi all’approdo dell’ammiraglia della Sesta flotta americana, che «segnò in qualche modo la fine di un’epoca iniziata negli anni ottanta per culminare, un paio di anni dopo la caduta del muro di Berlino, in una guerra lampo abbastanza indolore tra le forze secessioniste e l’esercito jugoslavo, quando l’impero degli Uguali si sciolse come neve al sole, spalancando le porte al fantasioso e imprevedibile mondo dei disuguali» (p. 69).

Con tutto ciò, ovviamente, Una vita in secca non è, né intende essere, un libro di storia e il suo autore non è uno storico, non un sociologo e – se fosse pittore – non sarebbe per certo un paesaggista, semmai piuttosto un ritrattista: è l’Uomo, in larga misura lui stesso anzi, il fulcro dei suoi interessi, il centro attorno al quale, mediante l’uso sapiente di una prosa narrativa di non comune eleganza e suggestione evocativa, descrive la condizione così particolare dei “rimasti”, gli italiani cioè che non hanno percorso la via dell’esodo, optando alfine per una diversa nevrosi, non già quella dell’esilio, ma in qualche modo quella della contemplazione di una precarietà esistenziale determinata da un confine che rimane onnipresente anche dopo che provvidenzialmente l’unità dell’Europa lo ha di fatto cancellato.

Anche se il personaggio di Davide Santin assume nel tessuto narrativo quello che in anatomia è il ruolo della colonna vertebrale, lungi dal limitarsi a lui la storia si distribuisce su una pluralità di attori, ciascuno dei quali segue diligentemente il copione fissato per lui dall’autore, e di nuovo la tirannide dello spazio a disposizione mi impedisce di dilungarmi sulle figure che animano il romanzo, che – peraltro felicemente – ama le digressioni, organizzandosi analogamente al ramificarsi di un albero, come è quello che campeggia sulla copertina del volume. Almeno di uno di tali personaggi bisogna però pur dire qualcosa, per quanto emblematica è la sua presentazione da parte dell’autore. Mi riferisco a Mario Antonio Della Boccia, alias di Marij Anton Krogla, che talvolta, come in un sincretismo onomastico, adotta, nella grafia, un nome che contiene entrambe le varianti: Marijo. Casualmente giornalista di professione, Marijo vive tutte le contraddizioni di questa duplicità, fino al punto di perdersi nel paralizzante dilemma se sia meglio, post mortem, essere inumato o cremato. Già, perché c’è una discreta dose di sorridente ironia e auto-ironia nel libro.

Per concludere (maledette le esigenze dello spazio!) andremo a New Orleans per apprendere dalle parole di Johnny K. Paries qualcosa di più di questa composita realtà istriana: Ciò che fa muovere questo paese è la frontiera […] L’abbiamo talmente interiorizzata, come un motore infallibile che ci fa muovere, anche quando non c’è più una frontiera da valicare, anche quando il territorio che abbiamo davanti è una pianura desolata e infinita, ormai depredata e spogliata… anche lì ci immaginiamo una frontiera per caricarci di spirito esploratore e, spesso, violento. Ci sono frontiere invisibili in questo paese, dove ogni tanto ci andiamo a sbattere» (p. 168 e seg.).

Raccomando sempre ai contributori di questa rivista di evitare se possibile l’uso di superlativi encomiastici nelle recensioni. Credo di essermi attenuto a questa prescrizione, scrivendo di questo libro, ma sappiate che l’ho fatto a stento.

 

Copertina:

 

Aljoša Curavić

Una vita in secca

Oltre edizioni, Sestri Levante (Ge), 2019

  1. 240, euro 16,00