Il governo del presunto cambiamento

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Dopo le pantomime e i ripensamenti, i ribaltamenti di fronte nelle trattative, gli ultimatum e i penultimatum, le minacce e i tentennamenti cui abbiamo assistito per ottantotto giorni, il Governo si è finalmente insediato.

Un Governo che intende qualificarsi come “Governo del cambiamento” e in effetti almeno in parte lo è, considerando che il partito di maggioranza relativa che costituisce il più della nuova maggioranza accede per la prima volta al potere esecutivo, alla cosiddetta “stanza dei bottoni”. Così non è per l’altro contraente, la Lega, il più antico dei partiti presenti in parlamento, che nell’ultimo quarto di secolo ha governato all’incirca per la metà degli anni nei governi di centrodestra.

Il progetto politico su cui si basa la nuova coalizione è riassunto in un documento definito “contratto”, anziché programma: confidiamo che questa denominazione non costituisca il cardine del preteso cambiamento. Gli esperti dei due partiti hanno lavorato per tre settimane per redigere tale contratto (la spropositata estensione temporale è stata sbandierata per migliaia di volte dalle televisioni che seguivano il bizzarro andamento della crisi nelle sue ultime fasi, quasi che tre settimane fossero un vanto da esibire ai cittadini che, quando non sono disoccupati, di settimane ne lavorano quattro ogni mese). Entrando nel merito del contenuto del contratto, con particolare riguardo ai temi che riguardano in maniera più diretta gli argomenti di cui si occupa Il Ponte rosso, osserviamo che la voce “cultura” occupa una paginetta scarsa delle 58 che compongono l’intero fascicolo, ma quel che è peggio è che dalla lettura di quelle poche righe si ricava l’impressione che per gli estensori la cultura sia un sottoinsieme della voce turismo, un qualcosa da valorizzare solo in quanto consente di mungere risorse dai flussi turistici. È una visione che sappiamo – per esperienza diretta e prolungata nel tempo – condivisa da molti assessori alla Cultura, visione che tuttavia ci ostiniamo a considerare assai riduttiva.

Qualcosa abbiamo capito, tuttavia, dal surreale dibattito cui abbiamo assistito per quasi tre mesi. Per esempio che va benissimo un Presidente del Consiglio che non è stato eletto da nessuno, anche perché nessuno lo aveva candidato alle elezioni, checché se ne dica di questa prassi. O anche che è un peccato assolutamente veniale quello di far lievitare impropriamente il proprio curriculum. Oppure che anche se il sunnominato Presidente del Consiglio si fa dettare l’elenco dei ministri dai suoi due vice, anziché essere lui a proporlo in autonomia al Presidente della Repubblica, va bene lo stesso. O ancora che non è grave nominare ministro un signore che si è avvalso della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (conosciuta come legge ex Cirielli) per uscire per prescrizione del reato da un processo nel quale era incriminato per aggiotaggio e falso in bilancio: uno insomma che secondo il regolamento del Movimento 5 stelle – partito di maggioranza relativa – non avrebbe potuto nemmeno essere incluso in una lista elettorale. Oppure che siano state indicate come vincitrici della contesa elettorale due forze politiche che invece sono in effetti solamente la prima e la terza dei perdenti.

Quelle sopra esposte, tuttavia, possono rientrare nella categoria delle note di colore, anche se è doloroso ammettere che tali “note di colore” connotano ormai universalmente (la notizia relativa al curriculum gonfiato del professor Conte è stata rivelata dal New York Times) un’immagine certo non lusinghiera del nostro Paese. Altra ben più grave cosa è invece minacciare per un paio di giorni la messa in stato di accusa per alto tradimento di un Presidente della Repubblica che ha fatto con composta dignità soltanto il suo dovere.

Quanto all’azione di governo staremo a vedere, naturalmente, augurandoci vivamente che non si tratti di un “governo del cambiamento in peggio”.