PROFETI DISARMATI ALLA VIGILIA DELLA GRANDE GUERRA
Il Ponte rosso N° 10 | Luca Zorzenon | marzo 2016 | storia
di Luca Zorzenon
Un bel volume curato da Fulvio Senardi ed edito dall’Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione (Profeti inascoltati. Il pacifismo alla prova della Grande Guerra, 2016), frutto di un convegno triestino del 2014, raccoglie studi sul pacifismo nell’Europa a cavallo del ‘900.
Il denso saggio iniziale di Senardi (“Apogeo e declino dei movimenti pacifisti: verso la Grande guerra”) introduce il tema e ripercorre personalità e movimenti esemplari del pacifismo europeo nei due grandi campi del liberalismo borghese e del socialismo d’anteguerra, gli ideali nobili e generosi che li ispirarono, le differenze che talora li divisero, la comune, rapida sconfitta che poi li travolge allo scoppio della guerra mondiale.
Leggendo il volume vien da pensare a quella “comunità di agosto” (famosa la descrizione viennese di Stefan Zweig) che nell’estate del ’14, nelle vie e nelle piazze di Berlino e Vienna, non meno che di Parigi e Londra, gridò, ognuna per la sua parte, le ragioni dell’adesione al bellum iustum. Masse urbane, piccola borghesia degli impieghi pubblici e del commercio, media borghesia delle professioni, e poi professori e studenti, anche operai: una “comunità” che, in nome della chiamata alla guerra, mitizzava se stessa e l’idea di una fratellanza nazionale nella proiezione di un desiderio di mescolanza e uguaglianza popolare al di fuori degli schemi e delle funzioni della società borghese e al di sopra delle sue divisioni di classe.
Tanti giovani, giovani colti, la generazione del ’14, come è stata chiamata; o del ’15, in Italia. Alle ragioni profonde di una guerra scatenata dalla ragion imperialista di ordine economico-finanziario (ben chiarita da Senardi nel suo rinvio alle contemporanee illuminanti analisi critiche di John Atkinson Hobson e di Rudolf Hilferding) e dentro la sua ricezione politica nei coevi processi di nazionalizzazione delle masse nello Stato, quella generazione risponde con un “sì”, anzi, con tanti e diversi “sì” alla guerra.
È un “sì” alla guerra talora nel segno di una frattura con l’ideologia liberal-borghese dalla quale quei giovani provengono. Si sprezzano le comodità borghesi per misurarsi con la fatica e gli stenti della trincea, si lasciano gli studi per l’esaltazione dell’azione diretta, si oppongono il vitalismo alla decadenza, il protagonismo sociale immediato alle mediazioni del parlamentarismo liberale, la disciplina del sacrificio e dell’ eroismo (super)umani alle sorti progressive (pacifiche e magnifiche?) promesse dal mondo della scienza e della tecnica positiviste. Giovani colti europei (e meno giovani) che a stragrande maggioranza non trovano nelle idee pacifiste alcuna identificazione ideale, alcuna risposta ai loro sentimenti: anzi, spesso, ne irridono le indubbie trasgressioni culturali rispetto alle ideologie dominanti, il culto della virilità e dell’azione, la guerra come formazione morale ai valori del coraggio, del cameratismo, del sacrificio, o come trasfusione di nuovo sangue nell’anemia della vita borghese.
Altri giovani, altre masse, quelle proletarie, su cui si fa largo l’idea internazionalista della rivoluzione socialista, da aspettare e preparare gradualmente con l’organizzazione politica socialdemocratica e degli organismi sindacali interna allo stato borghese: no alle guerre imperialiste del capitalismo, eppure raramente invocando lo spettro della diserzione di massa attraverso lo sciopero generale, e semmai con l’idea che se guerra c’è dalla sua catastrofe possa partorire la rivoluzione.
La partita della pace o della guerra nel ’14 si gioca già tutta entro una moderna egemonia culturale e politica sulle masse e sulla loro educazione nazionalista e statale, e per ovvie ragioni sulle masse giovanili (sono i giovani a farla, la guerra). Ed è su questo terreno che il razionalismo del movimento pacifista internazionale nell’esordio del ‘900 perde la sua battaglia.
Nelle maggiori potenze europee la partita è vinta dalla guerra nel giro di qualche sola settimana estiva (e allo stesso risultato conducono pure i mesi della neutralità italiana), quando anche i grandi partiti socialisti europei votano il patriottismo nazionale della “guerra giusta” nei rispettivi parlamenti. Né cambia molto, nella sostanza, la doppia negazione della famosa formula del socialismo italiano, sul cui percorso politico, soprattutto nella sconfitta dell’interpretazione massimalista del pacifismo di Lazzari, di Serrati e della Balabanoff, ragiona Fabio Fabbri, “Il socialismo italiano di fronte alla guerra: l’internazionale e la pace”.
Nel contesto della mobilitazione generale per la guerra la galassia internazionale dell’associazionismo pacifista, in prepotente sviluppo nell’Europa “pacifica” dell’ultimo cinquantennio, si polverizza quasi all’istante.
“Un caso esemplare” sono così “i pentimenti di Ernesto Teodoro Moneta” (ritratto da Fulvio Salimbeni), il garibaldino dei Mille, fondatore dell’Unione lombarda per la pace e l’arbitrato internazionale, protagonista di tanti congressi internazionali pacifisti, insignito del premio Nobel per la pace, che, rivendicando il carattere “difensivo” delle guerre italiane, nel 1911 si schiera a favore del conflitto italo-turco per la Libia e poi durante la neutralità aderisce al fronte interventista, destando scalpore e proteste fra i pacifisti europei.
Con altri e diversi percorsi in area austro-germanica altrettanti Nobel per la Pace, autorevoli membri di importanti organizzazioni pacifiste europee, ispiratori di innumerevoli congressi internazionali tra fine ‘800 e inizio ‘900, nell’estate del 1914 vedono sgretolarsi il loro impegno in favore di una politica razionale e illuminata di disarmo, di abolizione degli eserciti permanenti, di fratellanza fra i popoli (ma la von Suttner, in verità, non esitava a legittimare positivamente la missione “civilizzatrice” del colonialismo occidentale), della creazione di istituzioni mondiali di governo e arbitrato delle controversie internazionali. Le figure di Alfred Hermann Fried e Ludwig Quidde vengono ricordate da Francesco Pistolato (“Personalità contro la guerra nell’area tedesca”), quella della baronessa von Suttner da Annapaola Laldi (“L’impegno pacifista di Bertha von Suttner nelle lettere a Nobel e nelle ‘Glosse’ ”), Norman Angell e Jacques Novicow da Senardi nel saggio iniziale. Ognuno a suo modo – chi più impegnato a tentare raccordi col mondo socialista e le masse popolari (Fried), chi più volto alla conquista delle classi altoborghesi e aristocratiche (von Suttner), chi troppo ottimisticamente fiducioso nei valori liberali e liberoscambisti (Angell) – tutti ispirati da un’idea razionale della politica, da fiducie illuministe e positiviste, liberali o socialisti, e tutti egualmente spiazzati, allo scoppio della guerra, dalle accelerate dinamiche nazionaliste di formazione degli schieramenti in campo e delle rispettive ragioni di una guerra da ogni parte giustificata, anche con sussulti e pulsioni emotivo-esistenziali, come patriotticamente “difensiva” del popolo e dei diritti nazionali. Né miglior esito si produce nel passaggio dalla Germania del Kaiser o dall’Austria imperiale alla Francia repubblicana (Bernard Hautecloque: “Le forze ostili alla guerra in Francia prima del 1914. Storia di un fiasco?”), dove alla tradizione postnapoleonica di aspirazione alla pace subentra, dopo il 1870, l’idea di “revanche” patriottica antigermanica che penetra fin nell’antimilitarismo proletario e sfocia, entro i quadri dell’internazionalismo socialista, da una parte nelle ambiguità politiche di un Gustave Hervé, dall’altra nel dramma dell’assassinio di Jacques Jaurès, confinando così il pacifismo intellettuale di una tradizione che va da Victor Hugo a Romain Rolland ai margini di una dolorosa inascoltata testimonianza.
Il volume Profeti inascoltati riserva una sua parte anche alle “ragioni della pace nella letteratura italiana”, con l’eccezione di un bel saggio di Renzo Stefano Crivelli (“Nel mondo inglese: T.S. Eliot e la Grande Guerra) che rintraccia echi della tragedia della guerra mondiale in Gerontion e soprattutto nel capolavoro di Eliot The Waste Land.
Da De Amicis e Carducci (Alberto Brambilla, “Tra guerra e pace. Appunti su De Amicis e Carducci”), alle irresolutezze tra pace e guerra di Palazzeschi, Serao, Brocchi (Giovanni Capecchi, “Tra i letterati italiani che vanno alla guerra: i perplessi e i silenziosi”), al “pacifismo patriottico e militarista” di Pascoli (Fabrice De Poli, “Sulla parabola del pacifismo pascoliano”), all’antimilitarismo anarchico di Lucini (Stefano Magni, “L’antimilitarismo militante di Gian Pietro Lucini”), fino alle scissioni sveviane tra burgeois e cityoen che ci ricordano nell’ambiente triestino la struttura ideologica di quella frattura tra economia e cultura denunciata da Slataper (Riccardo Cepach, “Il tristo animale guerresco alla lega delle nazioni. Italo Svevo e la ‘teoria della pace’ ”), il volume offre spunti notevoli di ulteriore riflessione sulle instabilità e conversioni ideologiche ed anche sugli opportunismi dei letterati italiani di fronte alla guerra.
Alla prova dei mesi di neutralità la gioventù colta italiana (gli slataperiani “giovani intelligenti d’Italia”) parve pochissimo incline agli ideali socialisti dell’internazionalismo proletario e a quelli dell’associazionismo pacifista borghese.
Carducci e la tradizione garibaldino-mazziniana, De Amicis, ma anche Luigi Bertelli in arte Vamba, il padre di Gianburrasca, con il suo “Il giornalino della Domenica”, furono educatori di una gioventù che vide generosamente nella guerra italiana l’ultimo atto del Risorgimento democratico dell’Italia e in quella europea la guerra di liberazione dei popoli dagli imperi che avrebbe posto fine a tutte le guerre, e di cui Aldolfo Omodeo raccoglierà testimonianza sincera in Momenti della vita di guerra (1934), a preservarne il valore dalla strumentalizzazione fascista.
Presso un’“altra gioventù”, su disarmo, antimilitarismo, arbitrato internazionale e moderna organizzazione di una kantiana pace perpetua, fecero gioco piuttosto la retorica guerrafondaia di un D’Annunzio, le pulsioni sanguinarie lacerbiane di un Papini, la borghesissima festa energetico-industriale di un Marinetti. Più freddamente razionali le parole d’ordine di un Corradini che nel 1913, ben per tempo, scriveva sul dovere “nazionalista” di combattere e sconfiggere “tre pacifismi”: il «pacifismo idealista della borghesia colta e cosmopolita dell’Europa contemporanea» e l’ideale illuminista di «ragione» e quello romantico di «unione dei popoli» che lo sostengono, «pietismo umanitario», «deposito d’atavica poltronaggine» e «rammollimento di decadenza»; quello più «solido», il «pacifismo di classe», socialista, il più pericoloso poiché «vuole disfare l’unione nazionale»; infine, il «pacifismo plutocratico», degli industriali, e dei finanzieri, mercantile e affarista «che vuole la pace per paura che la guerra danneggi gli affari», a sgonfiare così anche la “grande illusione” di Norman Angell.
Profeti pacifisti inascoltati, dunque: e però anche, alla Machiavelli, disarmati nella difficoltà di mettere acutamente e per tempo a fuoco, negli anni della pace europea che precede il conflitto mondiale, della belle époque e delle fiducie razionali e scientifiche nel progresso positivista, le contemporanee dinamiche economiche imperialiste del capitalismo industriale e finanziario e la crisi profonda del liberalismo politico nell’idea nazionalista di integrazione subalterna delle masse nello Stato e nella mitizzazione della “comunità patriottica” in armi che intanto segnavano la via verso la catastrofe.
Disegni di Ugo Pierri
Profeti inascoltati.
Il pacifismo alla prova della Grande Guerra
A cura di Fulvio Senardi
Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione
Gorizia – Trieste 2016
- 190, Euro 15