Il Raffaello vanamente conteso

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Un volume edito da Olschki racconta della fortuna e delle vicissitudini dello Sposalizio della Vergine esposto a Brera, esibendo anche documenti inediti

di Walter Chiereghin

 

Uno dei dipinti più famosi di Raffaello, Lo sposalizio della Vergine, ora alla Pinacoteca di Brera, è da sempre posto in relazione con il dipinto pressoché coevo del Perugino dal medesimo titolo, ora al Museo di Belle Arti di Caen, in Francia (ma visibile – fino all’11 giugno – a Perugia, nell’ambito della mostra “Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo”, realizzata in occasione del quinto centenario della morte dell’artista). Le analogie tra i due dipinti risultano evidenti, per il soggetto, per l’organizzazione dello spazio della composizione, per la contiguità temporale delle due opere, e anche per un importante riferimento biografico citato dal Vasari secondo il quale il giovanissimo Raffaello fu introdotto dal padre, Giovanni Santi, nella bottega del maestro di Perugia. Tale asserita diretta filiazione artistica tra i due pittori è stata confutata nel ’900 da numerosi studiosi, che riducono la durata del periodo della presenza effettiva dell’allievo nella bottega del maestro, senza però che tale presenza si possa negare del tutto, considerando quanto le prime opere del Sanzio per committenze ottenute a Città di Castello tra il 1499 e il 1501 siano connotate da una netta derivazione peruginesca. Il primo capitolo dell’importante volume di Laura Picchio Lechi dedicato allo Sposalizio di Brera dà conto, nelle sue pagine iniziali, della questione tuttora aperta circa la prima formazione dell’Urbinate, per addentrarsi poi nella descrizione del dipinto dell’Urbinate e nella comparazione con il modello del Vannucci.

La pala del giovane Raffaello fece seguito cronologicamente ad altri tre dipinti eseguiti sempre per Città di Castello: lo Stendardo della Trinità (1499), unico dipinto ancora presente in città e conservato nella Pinacoteca Comunale, la pala con l’Incoronazione di San Nicola da Tolentino (1500-1501), prima sua opera documentata, smembrata e parzialmente visibile in vari musei, in Italia e all’estero, la Crocefissione Gavari (1503) ora alla National Gallery di Londra.

La pala dello Sposalizio della Vergine fu commissionata al giovane artista dal notaio Filippo Albrizzi nel 1501 per l’altare della cappella dedicata a San Giuseppe e al Nome di Gesù nella chiesa di San Francesco, pare con l’indicazione al pittore di attenersi al modello dell’analoga opera del Perugino, che pur avendone ricevuto l’incarico nel 1499, non ne iniziò l’esecuzione prima del 1503.

Entrambi i dipinti sono caratterizzati da un analogo schema compositivo, che prevede che la scena fondamentale del dipinto, in primo piano, si svolga al di fuori del tempio a pianta centrale che campeggia invece sullo sfondo, verso la cui porta, aperta sull’orizzonte, convergono le linee prospettiche. Il Perugino aveva già utilizzato vent’anni prima il medesimo schema nell’eseguire l’affresco della Consegna delle chiavi per la Cappella Sistina: in tutti i tre dipinti, l’atto essenziale della scena – la consegna dell’anello nuziale a Maria nei due Sposalizi e quella delle chiavi a San Pietro da parte del Cristo – è collocato in posizione centrale e perfettamente perpendicolare rispetto la porta aperta del tempio sullo sfondo, che nell’affresco rappresenta l’assunzione dei poteri spirituale e temporale da parte di Pietro, mentre nelle due pale raffiguranti lo Sposalizio richiama l’allegoria di Maria come Mater Ecclesiae. Soprattutto nella raffigurazione del tempio alle spalle del gruppo di figure in primo piano si può individuare la differente modalità di approccio dei due artisti: mentre il Perugino si appoggia con parziali aggiustamenti a un modulo già utilizzato nel proprio repertorio, l’Urbinate si dimostra «già in grado di trarre spunti dai grandi del suo tempo e di rielaborare motivi iconografici e soluzioni compositive, creando ogni volta qualcosa di completamente nuovo». Ad ogni modo l’architettura del tempio di Raffaello risulta maggiormente elaborata ma più contenuta nei volumi di quella dell’altro maestro, in modo da assicurare un maggiore slancio in senso verticale dell’intera composizione. Le figure in primo piano, invertite nella collocazione del gruppo degli uomini e delle donne rispetto al modello, ne perdono la rigidità frontale, risultando chine o girate di lato tanto la figura del sacerdote celebrante quanto quelle degli sposi e degli invitati, rendendo più vivace e dinamica la composizione.

In definitiva «da Vasari in poi, lo Sposalizio della Vergine è accreditato come l’opera attraverso cui Raffaello abbandona lo stile del maestro per crearne uno proprio, caratterizzato da estrema grazia, dolcezza, amabilità, ordine e armonia. In questo quadro è sovente apprezzata la composizione ritmica e prospettica, ma anche l’atmosfera carica di grazia, freschezza e giovinezza eterna» (p. 18).

è da quel dipinto che nasce il mito di Raffaello, destinato a durare, dopo la sua prematura scomparsa, per oltre cinquecento anni e chissà per quanti altri ancora.

Picchio Lechi prende in esame la fortuna critica, iniziata come un processo di beatificazione il giorno dopo quello della morte, 6 aprile 1520, con una lettera di Francesco Pico della Mirandola cui seguirono, a partire dal Vasari, con poche eccezioni, riconoscimenti di ogni sorta, relativi tanto alla personalità gentile quanto al fatto che la sua pittura divenne immediatamente il modello per quanti intesero perseguire una bellezza ideale, unito al suo studio dell’arte antica e di quella a lui contemporanea e alla sua capacità di rappresentare la natura. Per quanto attiene specificatamente allo Sposalizio della Vergine, il dipinto ebbe scarse attenzioni, forse anche perché il periodo umbro è stato considerato meno rilevante di quello fiorentino o romano, e per di più osservato alla luce del confronto con la pittura del Perugino. Forse anche per la non agevolmente accessibile ubicazione del dipinto nella cappella della chiesa di San Francesco, a parte Giorgio Vasari in entrambe le edizioni delle sue Vite, poco è stato scritto della pala di Città di Castello ignorato sostanzialmente dalla letteratura artistica fino alla fine del secolo XVII, e bisognerà attendere l’Ottocento perché, grazie alla sua collocazione a Brera, il dipinto risalisse agli onori delle cronache e degli studi storico-artistici.

è sullo spirare del secolo XVIII che le vicende della pala di Città di Castello s’intrecciano con quelle della famiglia dell’autrice del libro del quale stiamo parlando, la quale si preoccupa di farle precedere da un’animata ricostruzione del clima culturale bresciano così improntato dalle idee illuministiche che trovarono ascolto ed echi negli ambienti colti della città, inclusi quelli dell’aristocrazia locale, che per tutto il secolo aveva tra l’altro incrementato collezioni d’arte più che notevoli, in alcuni casi irrobustite da accorte politiche matrimoniali e successioni ereditarie. Tra queste la collezione della famiglia Lechi, alla quale le scelte di due fratelli, Faustino e Teodoro, arricchirono considerevolmente negli anni tra la fine del ’700 e gli inizi del secolo successivo. Fu però per merito del figlio primogenito di Faustino, il generale dell’esercito della Repubblica Cisalpina Giuseppe Lechi – che assieme ai fratelli partecipò alle vicende napoleoniche, con incarichi di primo piano sia politici che militari – che si poté aggiungere lo Sposalizio della Vergine di Raffaello alla già cospicua quadreria di famiglia. Il dipinto infatti fu donato al generale dalla comunità di Città di Castello il 29 gennaio 1798, in segno di riconoscenza per il suo intervento che pose fine, cinque giorni prima, all’occupazione delle truppe pontificie della città tifernate.

Nel seguito della vicenda, ovviamente nota, dell’opera – il suo inserimento nelle collezioni Lechi, i prevedibili contestazioni della legittimità della donazione, il sospetto che essa fosse stata in effetti una sorta di spoliazione sull’esempio delle molte perpetrate dagli eserciti napoleonici, la vendita del dipinto dopo i saccheggi che privarono i Lechi di gran parte dei loro beni mobili, l’arrivo dello Sposalizio a Milano e alla fine, nel 1806, a Brera – il libro della giovane studiosa si legge avidamente, come fosse un accattivante romanzo, pur conservando l’autrice un rigore saggistico confortato anche dalla presentazione, anche in facsimile, di documenti in parte inediti.

Il volume edito da Olschki si qualifica come strumento indispensabile per gli studiosi, ma anche utile per i curiosi appassionati delle infinite storie dell’arte.

 

Laura Picchio Lechi
Storica dell’arte e archivista. Comincia gli studi in storia dell’arte presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore conseguendo la laurea triennale a Brescia nel 2015 e quella magistrale a Milano nel 2018, entrambe con lode. Durante l’anno accademico 2018-2019 soggiorna a Firenze, quale borsista della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, approfondendo le proprie conoscenze in storia dell’arte. Nel 2020 si diploma in archivistica presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica. Si dedica agli archivi e alla pittura italiana tra Cinquecento e Settecento, con una predilezione per le pitture bresciana e lombarda.

 

 

 

Laura Picchio Lechi

Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello.

Tra fortuna critica e documenti inediti

Olschki, Firenze 2022

  1. VIII-158, euro 35,00