Amor di Trieste

| | |

di Diego Valeri

 

Riportiamo il testo integrale dell’articolo di Diego Valeri, pubblicato nel novembre 1951 dalla rivista Illustrazione del medico, rassegna bimestrale edita dai Laboratori Maestretti di Milano, corredato da due delle sue originali illustrazioni, opera di De Benedetti e Stefani. Sarà opportuno tener presente che la datazione dell’articolo lo colloca in uno spazio temporale in cui era viva la „Questione di Trieste“, e che Valeri, permeato dalla sensibilità politica dei suoi interlocutori triestini, scrive sull’onda di un convinto afflato di rapido ritorno di Trieste all’Italia, unito al rimpianto della perdita dei territori dell’Istria. Inoltre il poeta asseconda qui la visione italocentrica che gli studi di storia letteraria italiana e triestina nei suoi anni proponevano. Ci vorrà infatti ancora una profonda elaborazione critica perché nell’ambito della storia letteraria del Novecento triestino venisse sancita l’importanza di autori e testi in lingua slovena e fosse riconosciuta la convivenza sul territorio dell’universo latino accanto a quello slavo.

 

Trieste ha un’anima di mare, di sole, di vento. La sua carne, come quella di ogni altra città, è terra, pietra, mattoni: materia che non muta se non per il lungo logorio del tempo. Ma la sua anima è un che di atmosferico, in mutazione continua, in continuo travaglio di rinnovamento. Dico la sua anima visibile. quella che si connatura e si configura col suo corpo; senza pensare, per ora, alle sue sorti politiche, passate e presenti, che sono il suo travaglio intimo, la sua anima profonda.

Una forma stabile, definitiva, si direbbe che Trieste non ce l’ha. Non ce l’ha perché città giovane e di poca storia, ma anche e soprattutto perché proprio non può averla, in quel suo perpetuo sentire ed accogliere l’inquietudine degli elementi naturali. Giani Stuparich, che la porta nel sangue come il figlio porta la madre, ha notato questa mancanza di forma (o pluralità di forme, o trasformazione perpetua) con certe parole semplici in cui l’affetto amoroso si fa luce attraverso lo schermo del pudore filiale. «Ci sono delle città – dice – che mantengono il loro carattere austero o fragile, rigido o festoso, aperto o chiuso anche sotto il mutar delle ore e delle·stagioni: si colorano appena alla superficie, di toni differenti, ma la loro sostanza rimane la stessa. Trieste no. Trieste soffre e gioisce, fin nelle fibre più fonde, dell’atmosfera che la circonda: riflette il cielo, s’accorda col mare, contrasta o armonizza con le sue colline…».

Di qui la sua bellezza; che non è fatta di belle architetture, ma di luci e di ombre, di monte e di mare, di alberi rigogliosi, di navigli da guerra e da pace, di carri, di grandi cavalli lipizzani, e di gente che va per le lunghe strade, come mossa da un impeto di gioventù. Figure tipiche, quasi simboliche, le grandiose lavandare, che portano sulla testa il loro fardello bianco, e le splendide mule che marciano come la Vittoria di Samotracia. Bellezza della vita viva, piena di contrasti e di urti; somma, vorrei dire, d’innumerevoli minime esplosioni sentimentali. Umberto Saba, traducendo questa impressione in termini antropomorfici, parla di una «scontrosa grazia» da adolescente: «Trieste… – è come un ragazzaccio aspro e vorace – con gli occhi azzurri e mani troppo grandi – per regalare un fiore». E aggiunge, stupendamente: «come un amore – con gelosia».

Amore con gelosia: forse non è possibile dir meglio. L’esultanza dell’amore e il tormento della gelosia; il sole e le nuvole, il sereno e la tempesta… A ogni angolo di strada, un colpo di vento che ti spazza via le comode certezze: gli occhi verdi di una ragazza che ti bucano dentro; e, giù in fondo, un bagliore azzurro di mare che sempre fugge e sempre ritorna.

Perché il mare, a Trieste, entra dappertutto, è dappertutto. Un lato della piazza maggiore si spalanca per lasciarlo passare, e tutta la città beve·dalla gran bocca il respiro amaro delle onde. Nei giorni di bora i cavalloni sormontano facilmente il breve dislivel1o, e si rovesciano e si frangono sui binari del porto, sugli asfalti della passeggiata, contro i muri della Pescheria.

La città vive mescolata al suo mare, come farebbe il più povero villaggio di pescatori: meravigliosamente felice e infelice di esserglisi donata.

 

Poca storia, si diceva; ma gl’Italiani di qua dall’Isonzo avrebbero torto di dimenticarla, o d’ignorarla.

I primi a stanziarsi qui, al centro del golfo, pare siano stati i Carni. Ma furono, certo, i coloni romani di Aquileia che, nel secondo secolo avanti Cristo, dettero a quel borgo marinaro il primo impulso di vita, facendone un posto militare avanzato, un baluardo di confine, contro gl’Illirii, i Liburni e gl’lstri, fiere popolazioni e famose per piraterie.

Nel secolo successivo Giulio Cesare vi mandava la dodicesima legione, a ricacciare i Giapidi improvvisamente piombati sulla nuova città; e ai primi tempi dell’Impero tutto il territorio era stabilmente ascritto alla X Regione, insieme con la Venezia e con l’Istria, domata anch’essa e disciplinata alla volontà di ‘Roma. Sorgeva allora in cima al colle il tempio di Giove Giunone e Minerva. Ai suoi piedi la città si dilatava tendendo al mare, e si prolungava via per la riviera settentrionale in una collana di ville e di terme, fino allo scoglio di Duino. Ancor oggi si può vedere, mezzo impigliato e sommerso tra le casette del quartiere di Crosada, un forte arco di trionfo (il popolo, per sue misteriose ragioni, lo chiama l’arco di Riccardo), che dovette cavalcare una via assai ampia ed essere circondato da edifici non volgari.

Seguirono i secoli oscuri. Orde di barbari senza nome, eserciti ostrogoti e longobardi, masse di Slavi e di Unni si riversarono via via, dai loro deserti strani, su queste floride rive, e, sfasciato il municipio romano, travolsero e cancellarono quasi ogni segno del passato. La nuova fede aveva, intanto, levato sulle rovine del tempio capitolino un’umile basilica dedicata alla Vergine, e, accanto ad essa, un sacello per le ossa venerate di Giusto e di Servolo. E dalla nuova fede, non meno che dal­ la tradizione romana, indistruttibile, la città traeva vigore nuovo, preparandosi a rifiorire, all’alba del XII secolo, in libero comune italico.

Dal momento in cui il Comune si elesse un suo Podestà – anno 1216·– comincia l’ascensione commerciale di Trieste, e, conseguentemente, la sua resistenza al prepotere di Venezia, padrona ormai dell’Adriatico. Già nel 1202 Enrico Dandolo, movendo alla crociata che doveva riuscire alla conquista di Costantinopoli, aveva sostato con le galee di San Marco nel porto triestino, imponendo alla città un tributo di vino e un giuramento di fedeltà. Dopo quella prima presa di posizione (chiamiamola così), molti furono i tentativi di Venezia per assoggettare la proterva cittaduzza. Ma questa, profittando di ogni favorevole circostanza, e ricorrendo per aiuti ora al Patriarca d’Aquileia ora ai Duchi d’Austria, senza mai rinunciare del tutto alla sua autonomia comunale, sempre seppe sottrarre il collo al giogo marciano, e conservare intatta la sua libertà di navigazione.

Nel 1523 gli sforzi veneziani culminarono nella richiesta, fatta all’imperatore Carlo V. che «li triestini non possano haver·saline» né «traficare et navigare sopra il mare Adriatico»; al che Trieste rispondeva che «la repubblica non ha titolo alcuno sopra il mare Adriatico» e, quanto al primo punto, «haver avuto – essa Trieste – saline avanti che Venezia fosse fabbricata»… La Serenissima andava ormai verso il suo lento declino; Trieste, all’incontro, si sviluppava da ogni impaccio e montava in potenza.

Accorti imperatori ebbero poi per essa cure e provvidenze illuminate: Carlo VI le concesse il porto franco; Maria Teresa estese a tutta la città l’immunità doganale, largì le libertà politiche e religiose che il moto riformatore del tempo consigliava, costruì magazzini, scuole e ospitali, tutta una nuova città accanto all’antica; Giuseppe II favorì l’incremento delle giovani industrie e dei commerci già fiorenti. Ma più che i benefici e le munificenze dei prìncipi, a sorreggere e a sospingere Trieste su per l’erta, valsero la forte volontà di ascesa dei Triestini e la sicura coscienza, ch’essi venivano acquistando, del loro destino storico.

Emporio portuale a cui convergono molte vie della Media Europa, punto d’incontro di genti diverse, necessariamente attratte al mare, bisognose, smaniose di mare, Trieste non poteva fallire alla meta segnatale dalla stessa natura; così come non poteva non custodire e preservare in se stessa la fiamma della sua antica civiltà romana e italiana. Tutti vedono oggi che il sacrificio di Guglielmo Oberdan e la guerra del ’15 furono, anch’essi, eventi destinati, fatali.

 

Questa storia ha lasciato le sue tracce visibili specialmente sul colle, e intorno al colle di San Giusto.

C’è la chiesa, e il castello, e le viuzze che ad essi conducono. Viuzze anguste, contorte, poverette, ma nobilitate dalle patine e dalle velature del tempo, e rigurgitanti di vita, come le calli di Venezia e i carugi di Genova. L’architetto bislacco di questa città nella città è stato il bisogno, è stata la necessità; che ha creato prospettive di scalinate, fughe di rampe, svolte improvvise, scorci movimentati di porte·e d’imposte, 1uci di piazzette e ombre di pergolati, a cui, nei giorni di sole, si aggiunge la decorazione della biancheria sbandierata dai balconi o stesa a festoni da finestra a finesta.

Da questo ameno labirinto si sbocca, alla fine della salita, nel piazzale della basilica. La mole quadrata della torre e la fronte triangolare della chiesa, col suo rosone centrale, appaiono, bionde, tra la chioma verdissima d’un rigoglioso lodogno. Il torrione è costruzione trecentesca, salda e compatta, di grossi blocchi di pietra del Carso rudemente squadrati, ma include notevoli avanzi del tempio ivi eretto dai municipes romani di Tergeste.

Sul posto dove giacevano le rovine gloriose sorse nell’alto medio evo, come già. si accennava, una basilica dedicata a Maria, e accanto ad essa una cappella per i martiri Giusto e Servolo; i quali formavano con Sergio la triade dei santi guerrieri di Trieste. Fu tra il XII e il XIV secolo che le due chiese s’abbracciarono e si confusero, formando il nuovo edificio, necessariamente irregolare, che fu dedicato a San Giusto.

Una statua del patrono, poveramente scolpita, ma animata di candida fede, fu posta, fin da allora forse, dentro una gentile edicoletta tra romanica e gotica sul lato della torre che si congiunge con la facciata della chiesa; e il giovane Santo è ancor oggi lassù, che contempla con un sorriso la piccola città turrita, posata sul palmo della sua mano sinistra e contro il suo cuore. L’interno della chiesa è invaso dall’ombra; a cui bisogna assuefar l’occhio, abbagliato dalla gran luce del piazzale. Riacquistata la vista, si distinguono le cinque navate, e si può riconoscere nella maggiore di sinistra quella che fu già basilica mariana, nella maggiore di destra quella che fu il sacello dei santi martiri, e, infine, nella navata centrale il luogo d’incontro e i segni della fusione dei due edifici. Dalle due absidiole in cui terminano le maggiori navate laterali si partono, e guizzano per la penombra, lampi e brividi luminosi come di gemme incrostate sul muro. Sono i musaici onde si ornavano già le due chiese primitive; più antichi, certamente, quelli di sinistra, opera di maestri del VI secolo, forse gli stessi che lavorarono a Ravenna; più tardi, ma non meno belli, quelli di destra, che occupano soltanto la calotta dell’abside, mentre la parte inferiore è affrescata da un giottesco veneto che vi rappresentò con ingenua poesia episodi della vita del Santo. Sguardi severi e un poco tristi ci fissano da quei fondi di ombre balenanti, da quei campi d’oro e di smeraldo, di turchese e d’ametista, fioriti di gigli bianchissimi.

Accanto a San Giusto, sul pendio meridionale del colle, frondeggia un giardino di tassi, di nespoli, di pini, di mortelle, di lodogni; un giardino lapidario dove Domenico Rossetti cominciò a raccogliere, ai primi dell’Ottocento, le reliquie della più antica vita di Trieste. Alcuni frammenti del tempio capitolino, cornici, lapidi e stele funerarie, scavate qua e là, biancheggiano tra le morbide ombre verdi. Dal monumento espiatorio che la pietà cittadina volle eretto qui, il grande Winckelmann, ucciso a Trieste da un volgare malfattore, vigila, araldo d’amore tra i popoli, su quelle pietre consacrate dal tocco di Roma.

Sul pendio settentrionale, invece, s’erge enorme il castello, che dapprima fu (forse) rocca romana, e poi monastero, e poi fortezza quattro volte cinta di bastioni, e sede di capitani e di governatori. Gli si accovacciano ai piedi case e casupole; e intorno gli serpeggia una via, per la quale si ridiscende al piano, scoprendo giù nella valle, tra la Montuzza e la Scorcola, gran parte della città, e il porto, e il giro immenso e dolcissimo del golfo, e, in fondo, l’aperto Adriatico.

 

La Trieste di oggi, come persona morale, è una creatura dei suoi poeti, dei suoi scrittori: italiani tutti, senza eccezione.

(E s’intende bene che, dicendo Trieste, in senso morale e non puramente fisico, si dice al tempo stesso Istria; e si va subito col cuore a quelle piccole adorabili città nostre, che ci appaiono, ora, cosi disperatamente lontane, e come velate di gramaglie tra i due splendori del cielo e del mare. Di fatto,

poi, molti scrittori «triestini» sono istriani).

Se- la politica fosse veramente la filosofia della polis, essa dovrebbe riconoscere anzitutto e soprattutto l’importanza di questo fenomeno: che lo spirito di Trieste è espresso soltanto da scrittori italiani. (Una parentesi tira l’altra. Qui vorrei rilevare che di tutte le arti la letteratura è quella che, di gran lunga, primeggia a Trieste. Si direbbe che i Triestini, pur così «musicali», non sappian che farsi di un linguaggio universale, qual è, appunto, quello della musica – e delle arti figurative –; che, per esprimersi interamente, abbiano bisogno di una lingua nello stretto senso della parola: della loro

lingua, della lingua d’Italia). Chiusa anche questa parentesi, mi domando: non ci sarà stato nessuno, nei convegni dei grandi, a presentare un elenco, un semplice elenco di nomi di scrittori, che potrebbe cominciare con quello di Pier Paolo Vergerio, l’umanista capodistriano che fu amico del Petrarca a Padova, e finire, per ora, con quelli di Pierantonio Quarantotti Gambini e di Anita Pit­ toni?…

Ma dicendo che Trieste è stata creata dai suoi poeti, io pensavo particolarmente agli scrittori del­ l’Ottocento e del Novecento: di un tempo cioè in cui la coscienza dell’italianità, alimentata dalla passione del Risorgimento, ha toccato la sua maturità, producendo opere che fanno parte sostanziale del patrimonio letterario italiano e lo accrescono di valore. Poeti tutti, in certo senso, anche se scrittori di prosa, e magari di prose erudite, perché unanimemente impegnati a far di Trieste una città dello spirito, una realtà morale. una verità di sentimento.

La quale città assunse una sua forma compiuta, compiutamente artistica e poetica, quando apparvero Silvio Benco e Italo Svevo, Scipio Slataper e Umberto Saba, Virgilio Giotti e Giani e Carlo Stuparich, Ettore Cantoni e Delia Benco; e Giulio Caprin, e Camber Barni; e gli altri due che il canto suso appella. (Elenco incompleto purtroppo; che, tra l’altro, lascia Carlo Michelstaedter a Gorizia e Biagio Marin a Grado).

Questi poeti, a cui Giani Stuparich rivendica giustamente l’orgoglio di aver raccolto e di tener viva l’eredità spirituale di Mazzini e di De Sanctis; questi poeti, nello stesso tempo che s’inserivano nella più pura tradizione italiana, inventavano una loro Trieste, figura mitica e presenza carnale, ch’è una delle più belle e forti immaginazioni della nostra letteratura del cinquantennio.

Ciò che lega e armonizza dei temperamenti letterari così varii e diversi mi par proprio che sia il sentimento di Trieste come Trieste, e come Italia. e come mondo; meglio, lo sforzo di comprendere, italianizzandoli e localizzandoli a Trieste, molti elementi psicologici vaganti nell’atmosfera medieuropea e mondiale. Lo scrittore triestino urta così in una specie di contraddizione drammatica; ch’è poi la condizione essenziale della sua poesia.

Drammatica la dico io; ma Slataper l’avrebbe detta tragica. In una lettera alla Voce, che risale al 1909, egli scriveva: «Trieste è composta di tragedia. Qualche cosa che ottiene, col sacrificio della vita limpida, una sua originalità d’affanno… Trieste ha un tipo triestino: deve volere un’arte triestina. Che ricrei con la gioia dell’espressione questa convulsa e affannosa vita nostra».

La gioia dell’espressione è venuta, insieme con l’effusione del sangue. Ma la tragedia resta. Il sentimento, doloroso e un poco inebbriante, di un difficile destino è sempre al fondo delle cose pensate o fantasticate dai poeti triestini.

Non sono soltanto le sventure politiche, io credo, a tenerli così in ansia, in tensione, in sofferenza. è, piuttosto, la loro natura spirituale di Italiani di confine, il loro impegno di «sentinelle morte» dell’italianità.

L’Italia faccia loro sentire, in ogni momento, che non son soli, che dietro di loro c’è lei: storia, costume, paesaggio, anima, arte, poesia. Risponda in ogni momento, col cuore, alle parole sante che, nel loro nome e nel nome di tutti i Triestini, Silvio Benco scriverà sulla Nazione il 3 Novembre 1918: «Adesso entriamo veramente nel consorzio degli uomini, adesso da una triste vita di cavilli, d’inganni, d’insidie, di prepotenza larvata, di perpetuo negoziare avvilente sotto la sferza del padrone straniero, entriamo nel novero degli uomini che accettano doveri e diritti soltanto dalla patria grande, e dove sieno, dove vadano, sentono di rappresentare la dignità della loro nazione».

L’Italia, ora, non deve dimenticare, per nessuna ragione, i doveri e i diritti che ha accettati dalla sua Trieste.