Ancora il sonno della ragione

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L’immagine che abbiamo voluto in copertina, particolare di un’acquaforte/acquatinta incisa nel 1797, è forse la più celebre tra le opere calcografiche di Francisco Goya. Il titolo, riportato in una sorta di cartiglio in basso a sinistra, recita: El sueño de la razón produce monstruos: il sonno della ragione produce mostri. La copertina e, leggermente modificato, il titolo di questo editoriale replicano quelli che avevamo prodotto nel n. 78 del marzo 2022, a commento dell’occupazione militare russa dell’Ucraina, che tutt’ora dolorosamente perdura.

Nulla ci è sembrato più adeguato a rappresentare oggi quanto avviene in Medio Oriente, i giorni dell’ira e della vendetta – entrambe ferocemente omicide – cui stiamo assistendo impotenti. Cos’altro, se non un sonno profondo, comatoso, della ragione può sospingere due popolazioni che si contendono da troppi decenni il medesimo territorio a scagliarsi l’una contro l’altra? E a farlo spogliandosi di ogni residuo di umanità, fino a conseguire il risultato, lucidamente programmato, della morte – del nemico o propria, non ha importanza – che sospende il conflitto fintanto che altri si leveranno e riprenderanno a correre verso altri proiettili ed altre bombe, nel gioco crudele che non sembra aver fine.

Indagare su chi porti la responsabilità tremenda dell’insensata carneficina cui assistiamo ad ogni telegiornale, a questo punto, risulta un esercizio ozioso, che rischia anzi di rendere più profonda la prolungata collettiva narcolessia della ragione che impedisce ogni lacerto di razionalità degli attori che convulsamente si muovono sulla scena insanguinata la quale, con le dovute doverose cautele, ci viene riproposta più volte al giorno dagli organi d’informazione. Da questi, dalla narrazione che essi propongono, emerge con ogni evidenza che viviamo già all’interno di un sistema informativo di guerra, che si esprime per partito preso in favore di uno dei due contendenti e lanciando invettive e fatwā contro chi azzardi una flebile dissonanza dal pensiero unico dominante in ciascuna fazione. Così piovono accuse di antisemitismo se solo ci si avventura in una rilettura critica delle mosse del governo israeliano – ancorché condivise da una larga parte degli intellettuali e dei cittadini d’Israele – oppure, al contrario, si rischia di essere indicati come sostenitori dei massacri per via aerea su Gaza rigidamente assediata se solo si accenna al diritto di Israele a difendersi dai terroristi che intendessero replicare l’orrendo pogrom del 7 ottobre.

Né, purtroppo, un atteggiamento critico diverso proviene dalla generalità delle classi politiche, nemmeno da quelle occidentali, la nostra inclusa, i cui leaders si precipitano in Israele ad abbracciare Benjamin Netanyahu, indicato da molti suoi concittadini come il principale responsabile dell’efferata aggressione subita dal suo Paese.

Tutto ciò allontana indefinitamente nel tempo una qualche stabile atmosfera di pace per quei territori che molti continuano a definire, con involontaria ironia, Terrasanta. Già, perché non si prende in considerazione la constatazione che una violenza ingiustamente subita sposta in avanti per non meno di un secolo il calendario di una possibile ricomposizione, tanto nei risentimenti individuali e familiari, quanto per quelli che albergano in una più allargata collettività.

Possiamo in questo modo confidare nel 2123 perché siano gettate le fondamenta per avviare un processo politico che trasformi in una autentica pace una tregua che potrebbe intervenire in quel futuro per ora lontano, sempre che nel frattempo non sia intervenuto, da una parte o dall’altra, un completo genocidio risolutore.

Destarsi da questo plumbeo sonno della ragione dovrebbe essere sentito come un imperativo ineludibile, consapevoli come tutti dovremmo essere dell’insegnamento di un grande poeta che era stato soldato nel primo conflitto mondiale, Giuseppe Ungaretti, che a Gorizia pronunciò in un discorso rimasto memorabile una sentenza di adamantina chiarezza: «Non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega».