Ariaferma, il tempo sospeso

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di Stefano Crisafulli

 

Dentro l’immaginario carcere di Mortara, sintesi di tutte le prigioni possibili e richiamo voluto al ‘panopticon’ benthamiano, non è solo l’aria ad essere ferma, ma è il tempo stesso che è sospeso. E del resto il regista Leonardo Di Costanzo, autore del film Ariaferma, presentato, chissà per quale oscuro motivo, soltanto fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno, ha giustamente accostato la situazione di isolamento e di clausura che tutti noi abbiamo vissuto durante il ‘lockdown’ ad una forma di prigionia, ancorché necessaria, che anche in quel caso il tempo risultava sospeso. Ma al di là dei parallelismi dovuti all’attualità della pandemia, l’intenso film del regista nato a Ischia è anche un’opera fuori dal tempo, che rappresenta la violenza intrinseca di qualsiasi reclusione carceraria e la necessità, a volte, di travalicare le sbarre sociali dei ruoli rigidamente assegnati per ritrovare un barlume di umanità perduta.

I protagonisti del film, fotografato con maestria da Luca Bigazzi, sono Toni Servillo, nei panni del capo delle guardie carcerarie, Gaetano Gargiulo, e Silvio Orlando, che impersona il detenuto Carmine Lagioia, entrambi straordinari nel dare vita ad una performance attoriale trattenuta e di poche parole, fatta di sguardi e di sfide silenti, con un perenne sottofondo di tensione che si percepisce nell’arco di tutto il racconto. Questo perché la sceneggiatura, scritta dallo stesso Di Costanzo assieme a Valia Santella e a Bruno Oliverio, non si abbandona a stereotipi filmici di genere e riesce a ritrarsi ogni volta che potrebbe accadere qualcosa, mantenendosi sul ciglio del dramma, senza mai caderci dentro. E così noi spettatori siamo altrettanto sospesi nel tempo dell’attesa, come tanti novelli Drogo nella Fortezza Bastiani di buzzatiana memoria, ad aspettare un’esplosione violenta che, invece, non avviene.

La storia è quella di un carcere in disuso, che prima di essere dismesso del tutto deve continuare ad ospitare dodici detenuti, sorvegliati da un gruppo di guardie carcerarie, fino a quando non sarà possibile trasferirli da un’altra parte. Ma questo ‘fino a quando’ è indeterminato e potrebbe voler dire pochi giorni o un mese o più: ciò genera tensione tra i carcerati perché nel frattempo sono state sospese le visite dall’esterno e tutte le attività, compresa quella della mensa carceraria, tanto che i pasti giungono già pronti da una ditta che viene da fuori.

Proprio il cibo diventerà un’occasione di stravolgimento delle ferree regole di distanza assoluta, anche etica, tra le guardie e i prigionieri: uno di essi, Lagioia, che non si sa quali crimini abbia commesso, ma si è guadagnato la leadership del piccolo gruppo di reclusi, propone di riaprire la mensa e di cucinare per tutti, guardie comprese, e la proposta viene accolta da Gaetano Gargiulo, che in quel momento fa le veci del direttore del carcere, non senza molte perplessità da parte dei colleghi. L’esperimento, nonostante tutto, riesce ed ha il suo culmine in una cena che si tiene per necessità, a causa di un black out, a celle aperte, durante la quale due delle guardie si uniscono ai detenuti per mangiare assieme, in un richiamo quasi cristologico all’ultima cena. Più laicamente, si potrebbe dire che la comunanza del cibo riesce a far nascere quel sentimento di appartenenza all’umanità che si trova in ognuno di noi, al di là della barriera tra bene e male: ‘Homo sum, humani nihil a me alienum puto’.