Città vuota

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Viviamo giornate immerse in un clima di solitudine e di sospensione del nostro abituale tran tran, chiusi in casa, gli appartamenti trasformati dal decreto governativo in tante fortezze Bastiani. Dalle finestre spiamo, nell’incongrua primavera che pianamente si accinge a prendere il posto di un inesistente inverno, l’arrivo di un nemico incognito ed elusivo. Arriverà, se e quando arriverà, dall’orizzonte di un deserto urbano improvvisamente immerso nel silenzio e nella luce abbacinante in cui lo aveva immaginato, nel suo Deserto dei Tartari, Dino Buzzati.

E poi finirà questa nottata, naturalmente, come finisce ogni guerra: il sole sorgerà ancora, come ogni mattina, torneremo ad uscire, a incontrarci, a cenare con gli amici, ad andare al cinema, a teatro. Lo faranno almeno quelli di noi che saranno tra i salvati. Gli altri, i sommersi, avranno consumato le loro ultime ore nella solitudine asettica di un reparto di terapia intensiva, nel ronzio discreto dei dispositivi tecnologici che prolungano le loro agonie, senza poter intuire, riflesso negli occhi di una persona cara, lo stesso loro sbigottito disappunto per l’imminenza del definitivo congedo. Caduti in una guerra senza rifugi né trincee, senza medaglie né onori, subita e non dichiarata, sarà loro negato persino il postumo omaggio di esequie pubbliche, perché – anche opportunamente, per carità – si sono vietati persino i funerali, in preventiva resa al possibile contagio.

Riflettendo su questi aspetti nell’isolamento di queste giornate, attendendo i dati del quotidiano bollettino di guerra che alle diciotto viene diffuso via etere dai responsabili della Protezione civile, non si può non considerare che oltre al costo anagrafico con le sue statistiche di sommersi, salvati e contagiati, oltre anche al costo economico, forse addirittura irrimediabile per il nostro Paese, che probabilmente saremo chiamati a pagare per il resto della nostra vita, esiste anche un costo antropologico, per una società che improvvisamente si riscopre fragile, impotente, introflessa nei singoli nuclei familiari, anche se obbligatoriamente solidale per decreto, almeno in alcuni dei suoi comportamenti. Finirà la nottata, certo, e forse molte cose torneranno come prima: potremo incolonnarci in macchina per andare al mare d’estate, i credenti potranno tornare a messa almeno la domenica, seppelliremo i nostri morti abbracciandoci in un dolore composto e almeno in parte stemperato perché suddiviso tra quanti si affolleranno attorno al caro estinto.

Forse. O magari saremo indotti dalle forche caudine, sotto le quali ci ha costretto a passare collettivamente il male insidioso cui oggi tentiamo di resistere, a ripensare criticamente quanto è avvenuto nella nostra comunità, tra gli ultimi scampoli di un inesistente inverno e nell’incongrua primavera che lo ha seguito. E a considerare per esempio se sia stato opportuno per decenni ridurre le spese per la sanità pubblica, confidando in quella privata (e agevolandone i non irrisori utili di bilancio). O, tanto per citare un elemento secondario, ma non del tutto, se sia risultato utile alla società italiana l’istituzione del numero chiuso a Medicina. O ancora, se non sia stata un’imperdonabile leggerezza assegnare nell’urna un ruolo centrale a politici di mezza tacca, che starnazzano ora, pretendendo dal Governo provvedimenti oggi più severi, ieri più tolleranti nella lotta al contagio, reclamando ieri la chiusura oggi l’apertura dei confini, magari invocando, con questi chiari di luna, elezioni anticipate, tanto per non smentirsi.

Forse che qualcuno in più inizierà a considerare criticamente quello che gli viene propinato dagli onnipresenti tuttologi, ricordando gli interventi sbraitati alla televisione, tra improperi e volgarità, da un noto storico dell’arte che, novello don Ferrante, si affannava a spiegare che il virus non esiste, inveendo contro i virologi che a suo dire brancolano nel buio. Come dire: il bue (la capra, nella fattispecie) che dice cornuto all’asino.