Diego Zandel si racconta

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Nel libro I testimoni muti il dramma dell’esodo narrato da un esule fiumano di seconda generazione

L’autore unisce, attraverso delle regressioni temporali, il racconto autobiografico a episodi risalenti all’immediato dopoguerra

di Michela Mazzon

 

 

Autore noto per le sue detective stories e suoi racconti e romanzi brevi, Diego Zandel affronta per la prima volta le vicende dell’esodo in questo saggio autobiografico che vede come protagonisti i suoi genitori, le rispettive famiglie d’origine – quella paterna esule e quella materna “rimasta” – e gli esuli stessi, sconvolti dall’abbandono della Venezia Giulia in seguito al Trattato di pace del 1947. A differenza del suo primo romanzo, Una storia istriana (1987, con la collaborazione di Fulvio Tomizza), in cui l’Istria è, a partire dal titolo, ben presente, ne I testimoni muti l’Istria e il Quarnero divengono i luoghi di un’assenza vissuta con nostalgia e rimpianto.

Zandel nasce a Fermo, nelle Marche, nel 1948 da Carlo e Maria, una coppia di sposi fuggiti da Fiume nel 1947, ospitati per qualche anno nel campo profughi di Servigliano nelle Marche, infine trasferiti nel Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, dove Diego crescerà a stretto contatto con la cultura veneto-istriana e con i racconti, da parte degli esuli, di storie legate alla recente drammatica fuga di massa.

L’autore ricostruisce il proprio percorso di crescita, in cui determinanti sono stati il contatto con i nonni materni a Fiume e l’incontro con i parenti paterni, croati residenti nella fascia costiera a stretto contatto con la componente italiana e di madrelingua čakava, forma di dialetto croato influenzata dall’istro-veneto al quale i suoi parenti alludono con la locuzione avverbiale po naše, “alla nostra maniera”. L’idioma non gli è completamente estraneo, per averlo sentito parlare dalla nonna paterna nei due anni in cui questa lo aveva accudito, mentre la madre era ricoverata in sanatorio a causa di una grave forma di tubercolosi. Anche a partire dall’ascolto di questa lingua, Diego inizia a interrogarsi sul concetto di identità. In che cosa consiste, in realtà, l’identità istriana? Chi sono gli istriani? E perché è avvenuto l’esodo?

Il percorso di Zandel verso una verità è piuttosto arduo: emergono conflitti di lealtà nei confronti della sua gente e della sua famiglia con cui è cresciuto e dalle quali ha appreso una versione (unilaterale e parziale) degli eventi che hanno portato all’esodo dall’Istria. Diego comprende che l’Istria non è un territorio esclusivamente italiano, come affermano con veemenza gli abitanti del Villaggio, irrimediabilmente traumatizzati dalla violenza titina e dallo sradicamento subito, motivi (pur comprensibili) della loro ostilità nei confronti della componente slava, rea, ai loro occhi, di aver occupato le loro case dopo averli indotti forzatamente alla fuga. Un ulteriore oggetto di riflessione è costituito dall’odio profondo degli esuli per le ideologie politiche di tipo socialista e comunista, ritenute una delle ragioni principali dell’esodo, mentre per Zandel e altri suoi giovani amici sono voci concrete e attive nel dibattito politico del tempo, con proposte e ideali. Gli incontri con l’amico Claudio D., il Professor Nider e Gaetano de Leo gli offrono nuove suggestioni ed elementi di riflessione, specialmente per quanto concerne i racconti dei soprusi nei confronti degli slavi del regime fascista e le interpretazioni del socialismo nei paesi dell’Est. Il dibattito e la comprensione degli eventi si arricchiscono grazie al confronto con scrittori ancora residenti in Istria come Giacomo Scotti, Mario Schiavato e Romano Farina, e ai diversi viaggi a Fiume e in Istria, dove Zandel conosce altri “rimasti”. In Istria e nella Venezia-Giulia, la componente italiana (maggioritaria nella zona costiera) ha convissuto da sempre con la componente slava (maggioritaria nelle zone interne), a tutti gli effetti “slavi venetizzati”, vale a dire una popolazione che comprende il dialetto veneto e ne conosce usi e costumi, anche per via dei frequenti matrimoni misti. Italiani e slavi, in quelle terre, non avevano avuto alcuna percezione di appartenere a una cultura differente e di parlare una lingua diversa, ma solo quella di condividere le medesime radici, che sono soltanto istriane. Tale tessuto culturale, consolidatosi nel corso dei secoli, è stato completamente distrutto dall’esodo: la fuga degli italiani dalle città costiere (ma non solo) e il successivo processo di inversione etnica (l’immigrazione di slavi dalle zone interne della Jugoslavia) hanno inevitabilmente modificato l’assetto sociale della Venezia-Giulia.

Per esigenze narrative lo scrittore, che si era recato a Fiume una prima volta con i genitori nel 1954, posticipa il suo primo incontro con la città al 1956, anno della Rivoluzione ungherese. I genitori di Diego speravano che, in seguito a questo evento, il regime comunista crollasse in tutti i paesi dell’Est Europa e offrisse dunque loro l’opportunità di ritornare a Fiume in via definitiva. A causa del timore di non rivedere mai più la sua famiglia d’origine, la madre decide di trascorrere, con Diego, le vacanze a Fiume, dove il bambino conosce i nonni e gli zii materni. La famiglia assiste così, di anno in anno, a ogni nuovo viaggio nel capoluogo liburnico, al progressivo modificarsi della città, per cui anche la nostalgia per la città italiana viene ad affievolirsi, tanto forte è la progressiva slavizzazione e il mutamento della fisionomia della città. Solamente i “rimasti” testimoniano di quell’italianità prima minacciata dal terrore titino e poi quasi dissolta con l’esodo.

L’autore unisce, attraverso delle regressioni temporali, il racconto autobiografico a episodi risalenti all’immediato dopoguerra. Una di queste digressioni vede come protagonista Oskar Piškulič, capo dei servizi segreti jugoslavi, che nel maggio 1945 terrorizzò i fiumani con l’ordine e l’esecuzione dell’omicidio di alcuni esponenti del partito autonomista (Mario Blasich e Giuseppe Sincich, uccisi rispettivamente nel 1944 e nel 1945). Nel libro viene raccontato, sulla base delle testimonianze ricevute, l’omicidio di quest’ultimo, in cui la crudeltà e il cinismo emergono sullo sfondo di un’amicizia tutta fittizia. Per la maggior parte della componente italiana l’esodo ha rappresentato l’unica via di salvezza tanto dalle violenze psicologiche e fisiche (come gli infoibamenti) quanto da un mondo che esprimeva valori e costumi sentiti come estranei. Nel caso della famiglia di Zandel, il padre convinse la moglie a lasciare Fiume per potersi ricongiungere alla famiglia, nonostante le perplessità del nonno materno, spaventato dall’incerto destino della figlia e dal suo allontanarsi dalla propria famiglia, mentre lui sceglieva di rimanere in Istria per non perdere un lavoro sicuro e per il timore di affrontare l’ignoto in un’età ormai avanzata.

Nei confronti di questo piccolo mondo dai sentimenti ambivalenti e dalle aspre rivalità tra esuli e “rimasti” (che si considerano vicendevolmente traditori) e tra componenti italiana e slava, Zandel, attraverso le riflessioni sul ruolo del fascismo nei rapporti tra le due etnie e sul nesso tra guerra e politica, sembra elaborare un proprio punto di vista: tutte le vittime – siano esse del fascismo, della guerra, dei partigiani slavi o del comunismo di Tito – sono egualmente “testimoni muti” della violenza e della sopraffazione, privati del diritto di parola, di difendersi raccontando le loro tragiche vicissitudini. Sono vittime dell’arrivismo e del cinismo, dell’intolleranza e dell’incapacità di dialogo tra popolazioni e culture diverse.

Zandel, esule di seconda generazione, sente di appartenere all’Italia, alla Fiume italiana e allo stesso tempo all’Istria slava, cancellate dalla Storia e dalla politica di annessione. Esprime empatia e comprensione nei confronti degli esuli per il fatto che la loro dolorosa vicenda, per ragioni di diplomazia tra Stati, non sia stata riconosciuta per lunghi anni come parte integrante della Storia d’Italia, nonostante essi abbiano pagato più degli altri, con l’abbandono delle proprie case, il prezzo di una guerra scellerata.

Con questo libro, Diego Zandel espone il processo di maturazione delle proprie considerazioni sulle circostanze che hanno provocato l’esodo e sul rapporto tra i popoli, da una prospettiva unilaterale e limitata ai soli eventi del dopoguerra a una prospettiva “dialogica” in cui il confronto con la Storia e con l’alterità fornisca una visione più completa delle vicende, senza per questo sminuire o negare la gravità degli eventi e la sofferenza degli esuli, rimosse per cinquant’anni dalla memoria storica dello Stato italiano o più semplicemente strumentalizzate all’occorrenza dai vari partiti politici per propaganda. Al giorno d’oggi, nonostante la larga diffusione e la capillarità delle reti d’informazione, gli infoibamenti e l’esodo sembrano ancora essere confinati in una dimensione che non tiene conto della complessità storica, talvolta semplicisticamente considerati come una conseguenza dell’oppressione fascista nei confronti della componente slava: I testimoni muti di Diego Zandel è la testimonianza di come ogni riflessione su un dato evento storico debba essere condotta oltre ogni stereotipo e appartenenza politica o etnica, per essere discusso nella sua interezza e giudicato il più obiettivamente possibile.

 

 

Copertina:

 

 

Diego Zandel

I testimoni muti

Mursia, Milano 2011

  1. 218. Euro 15,00