Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana

| | |

A cinquant’anni dalla scomparsa di un prete “difficile”, di una grande figura si educatore

di Fabiana Martini

 

A Barbiana non ci si passa, bisogna andarci per forza, per scelta. Ora come allora.

La prima volta che don Lorenzo Milani ci mise piede correva l’anno 1954: era un insieme di case sparse senz’acqua e senza luce elettrica, senza ufficio postale e senza strade. 39 persone in tutto. La prima cosa che fece appena arrivato fu quella di andare in Comune e comprarsi una tomba, per sentirsi «totalmente legato alla sua nuova gente nella vita e nella morte», morte che lo avrebbe raggiunto il 26 giugno del 1967, esattamente cinquant’anni fa. Una dozzina d’anni in cui il Priore, così veniva chiamato, ha portato in quel pezzo sperduto del Mugello soprattutto una cosa: la parola. Perché è la parola «la chiave fatata che apre ogni porta»: «è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli» (Lettera a una professoressa). Don Lorenzo aveva davanti a sé gente povera e incolta: avrebbe potuto limitarsi a fare il funzionario del sacro, amministrando i sacramenti, o indulgere a una funzione consolatoria della fede, tanto più potenzialmente efficace in un contesto di emarginazione e disagio. Ma a lui non interessano i numeri («neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani…») né le bandierine: a lui interessa il Vangelo, quella buona notizia che ha cambiato la sua vita e che potrebbe cambiare anche quella di queste persone, se solo vi potessero accedere. Serve dunque una scuola: «con la scuola non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini… potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti… Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare e io non me la sento di dirgli che ho predicato quando so con certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili… parole che non potevano arrivare… Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel far scuola… Da bestie si può diventare uomini e da uomini si può diventare santi. Ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare» (Esperienze pastorali).

Era una scuola speciale la sua: una scuola che non rilasciava diplomi, ma abilitava alla vita; una scuola fondata sull’aderenza alla realtà e sul rapporto maestro-allievo, perché la conoscenza cresce nella relazione, nel confronto che scaturisce dal dialogo; una scuola che mette il discente al centro, non in maniera generica, ma adeguandosi alle esigenze di ciascuna e di ciascuno, perché «i ragazzi sono tutti diversi, sono diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, sono diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie»; una scuola che include e ascolta; una scuola che offre strumenti e non bagagli di nozioni; una scuola dove c’è posto per tutti, anche e soprattutto per i più difficili (perché «se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più la scuola: è un ospedale che cura i sani e respinge i malati»), e dove s’impara facendo.

A Barbiana la scuola iniziava alle 8 del mattino e finiva alle 8 di sera, 365 giorni all’anno, 366 negli anni bisestili. Si studiavano le materie classiche, ma anche (e soprattutto) le lingue, la musica, la pittura, la Costituzione. Si maneggiavano e realizzavano carte geografiche, si costruivano tavoli e sedie, si ascoltavano le canzoni di Dylan e Brassens. S’imparava a consultare le carte stradali e gli orari dei treni. C’era anche un telescopio, perché l’astronomia era una materia importante, e uno studio fotografico, e nel 1965 assieme all’elettricità arrivarono anche i primi calcolatori dell’Olivetti e un cineproiettore. Insomma, nella convinzione che chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara, nulla che avesse a che fare con la vita restava fuori dall’aula, a cominciare dai giornali, che venivano letti e riletti con spirito critico per coglierne l’essenziale e scoprirne le ambiguità. L’insegnamento era basato sulla parola come mezzo per esprimersi con correttezza ed efficacia nel sostenere e difendere i propri diritti, per esercitare la sovranità di cui come cittadini siamo titolari: la parola per don Milani è lo strumento più efficace per abbattere le ingiustizie sociali, per dare a tutti le stesse opportunità, per realizzare l’art. 3 della nostra Costituzione. Ed è proprio questa – tutti – una parola chiave per leggere la nostra Carta, che non riserva a nessuno privilegi di alcun genere, perché il suo obiettivo è la cura di tutti. La Costituzione traccia un percorso di crescita in diritti e in uguaglianza per tutti e lo disegna come obbligatorio, ma come amava ricordare Calamandrei la Costituzione non è una macchina che va avanti da sola: perché si muova bisogna ogni giorno metterci dentro il combustibile, cioè impegno e responsabilità. Motivo per cui a Barbiana era stata cancellata la ricreazione (Nessuno di noi – si racconta in Lettera a una professoressa – se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva polemica su questo punto. […]. Lucio che aveva trentasei mucche nella stalla (da sconcimare ogni mattina) disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”). Motivo per cui la politica, intesa come strada per condividere i problemi, a Barbiana aveva sempre trovato cittadinanza. Motivo per cui l’immagine forse più famosa è più esemplificativa dell’esperienza vissuta da don Lorenzo e i suoi ragazzi a Barbiana è quel I care scritto sulla parete di una classe: mi sta a cuore, m’interessa, contrapposto al “me ne frego” fascista. Un’immagine, questa, catturata da una stampa incorniciata, che ha accompagnato le mie varie esperienze professionali, seguendomi di ufficio in ufficio, e che riassume uno stile di presenza e di azione, di stare al mondo, che va ben oltre quella vicenda e anticipa il Concilio Vaticano II e quel modo nuovo con cui la Chiesa desiderava partecipare agli avvenimenti della gente: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et Spes).

Per questo il cinquantesimo della morte del priore di Barbiana, la pubblicazione della sua opera omnia per i tipi di Mondadori, la visita di Papa Francesco sulla sua tomba sono ben più della memoria di un anniversario: sono in primo luogo l’indicazione di un modello che pone nel primato della persona le sue fondamenta. Un primato che va oltre l’enunciazione sloganistica e si realizza nutrendosi di attenzione. E l’attenzione vigile e dedicata, quella che secondo Adele Corradi, l’insegnante che aiutava don Lorenzo, si viveva a Barbiana, è una forma di amore che ci mette in condizione di vedere e valorizzare il meglio degli altri, di incontrare l’altro a un livello più profondo: «Nulla passava inosservato a Barbiana. Ho detto una volta che Barbiana era una realtà particolare. Ora mi vien fatto di dire che lassù si viveva “nell’attenzione”. Quando venivano le mie sorelle a trovarmi provavano l’impressione di venire in un mondo di solitudine. Le case erano lontane una dall’altra. La strada si arrampicava nella solitudine. Vivendo lassù, invece, si sapeva che era una “solitudine abitata” e chi l’abitava non era distratto, ma attento. E il più attento di tutti era il Priore di Barbiana» (Non so se don Lorenzo di Adele Corradi, Feltrinelli).

Questo ha vissuto nei confronti dei suoi ragazzi don Lorenzo, che nel suo essere prete, dimensione non ancora sufficientemente evidenziata, si è dato tutto a tutti. Questo potrebbe vivere ciascuno e ciascuna di noi, prete o laico che sia, nelle relazioni interpersonali. Questo dovrebbe fare la politica, che avrebbe di che imparare da quella scuola sperduta nel Mugello. Anche e soprattutto oggi.