Il sole e gli sguardi

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La poesia di Pier Paolo Pasolini in forma di autoritratto

di Adriana Medeot

 

Il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza

(Pasolini).

Bianco e nero. Bianco lo spazio su cui Nicola Console disegna con forti e lente e dense pennellate di nero inchiostro la sagoma di un corpo esanime. Enormi e incombenti i piedi in primo piano, che ci vengono sbattuti in faccia, e poi… in fuga prospettica il cadavere di un uomo: il volto, distante, indecifrabile, un grumo di colore nero. Nella mente a quest’immagine si sovrappone un’altra che affiora dalla memoria: la scena finale di Mamma Roma (1962), quella in cui Ettore Garofalo, il giovane ragazzo di vita interpretato da Franco Citti, muore legato al letto del carcere. E ancora arriva la suggestione di un dolore straziante, antico, e pertanto quasi composto: è il Cristo morto del Mantegna.

Come una scudisciata si apre lo spettacolo Il sole e gli sguardi con la rappresentazione visiva del tragico assassinio di Pierpaolo Pasolini, il cui corpo fu trovato martoriato e abbandonato nel desolante scenario dell’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975. E di morte scandalosa si parlò in quegli anni, così come scandalosa fu percepita la vita di Pasolini, una vita all’insegna di una prepotente e smaniosa vitalità e del rifiuto: rifiuto della morale borghese, rifiuto alla connivenza con una classe dirigente ottusa, rifiuto del consumismo che corrompe il proletariato, rifiuto di essere etichettato e di etichettare. Epilogo oscuro di un’esistenza scomoda alla morale del tempo, che aveva saputo coraggiosamente offrire alla luce del sole la propria diversità, e aveva voluto – provocatoriamente sempre – esporsi agli sguardi.

Luigi Lo Cascio è splendido interprete e regista sensibile della produzione CCS Teatro Stabile di innovazione del FVG e Teatro Metastasio Stabile della Toscana, che è andata in scena dal 22 al 27 novembre al Teatro Rossetti di Trieste. Sulla scena dialogano i versi di Pasolini e i disegni in progress di Nicola Console, mentre la scenografia di Alice Mangano, essenziale ma fortemente espressiva, si apre o si fa claustrofobica, a sottolineare la complessa personalità di Pasolini e le tappe del suo percorso di formazione. Le musiche di Andrea Rocca e le luci di Alberto Bevilacqua contribuiscono a sottolineare efficacemente la lettura drammaturgica.

La performance dura poco più di un’ora, durante la quale veniamo trascinati e coinvolti nel mondo dell’etica pasoliniana, cullati per un attimo e travolti subito dopo dai suoi versi taglienti per rigore intellettuale e dolci nel contempo per necessità umana. La sua fragilità, le sue contraddizioni – che erano la sua materia prima per la crescita e la riflessione – , il rapporto complesso e sofferto con la sua natura più intima si manifestano appieno. Attraverso la recitazione di Lo Cascio, che a tratti si fa musica, ripercorriamo i luoghi e le persone che hanno segnato la poetica di Pasolini: Casarsa, Bologna e poi Roma e, descritta con sguardo innamorato, la figura della madre.

Pasolini è stato uno di quegli scrittori del Novecento con cui bisogna fare i conti, non si può sbarazzarsene facilmente. Potrebbe apparire formalmente datato da un punto di vista meramente letterario, ma di fatto i temi da lui affrontati nel trentennio che va dagli anni Quaranta ai Settanta risultano ancora attuali (omologazione da parte della società di massa, esclusione del diverso). Ha contribuito a smuovere una situazione stagnante, paludosa, gettando il sassolino dello scandalo, provocando; il suo pensiero, oggi, appare profetico. Artista tout court, e voce imprescindibile nel Novecento italiano, ha saputo utilizzare tutti gli strumenti che erano a sua disposizione: il cinema, il romanzo, la saggistica, il giornalismo per placare il suo febbrile desiderio di comunicare.

La sua poetica risente fortemente dei fatti della sua vita: “ferite che non cicatrizzarono mai: la sua diversità, sofferta ma appunto per questo gettata in faccia con orgoglio spavaldo; la morte del fratello partigiano per mano di altri partigiani; l’espulsione dal partito comunista a Casarsa […] fatti di vita che lo coinvolsero in pieno e segnarono intera la sua opera.” Così Giuseppe Petronio (in Racconto del Novecento letterario in Italia, 1940-1990, Mondadori, Milano, 2000).

Il tormento di un uomo contraddittorio e lacerato dai dubbi emerge durante lo spettacolo: la scelta dei versi della prolifica produzione pasoliniana sembra porre l’accento sull’anima più irrazionale e intima dell’artista, a ricercare quella modalità di comunicazione primigenia, quasi sacra, scevra dal raziocinio e dal ragionamento intellettuale.

Splendido spettacolo, colto, difficile, per intenditori. Il pubblico di sala Bartoli applaude, entusiasta.