La quinta mano

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Chirù di Michela Murgia: un romanzo improbabile

di Luisella Pacco

 

«”Immagina che questo strofinaccio sia l’universo. Ora ci metto questo mandarino, che è un pianeta, poi ci metto quest’altro e questo ancora. In pratica costruisco un sistema di pianeti. […] Prova a sollevare lo strofinaccio tenendolo molto teso, dagli angoli, così. Non allentarlo, tienilo tirato forte come me. […] Ora immagina che in questo microuniverso di rapporti paritari compaia una stella con una massa molto più grande, e una forza d’attrazione infinitamente più spiccata di quella dei mondi presenti.”

Prese un’arancia e la gettò al centro del telo. Il peso del frutto, a dispetto della tensione con cui tenevamo lo strofinaccio, lo fece affondare al centro e tutti i mandarini gli andarono appresso».

 

Dovete perdonarmi se ho iniziato così brutalmente con una citazione (nemmeno tanto significativa). Vi invito però a rileggerla con attenzione e a rappresentarvi bene la scena: ci sono due amiche (normodotate di due mani ciascuna); una delle due donne vuol spiegare all’altra una cosa, servendosi di questa bizzarra dimostrazione; c’è uno strofinaccio con quattro angoli tenuto ben teso dalle loro quattro mani… Ora vi chiedo di farvi una domanda (che a me e a qualsiasi altra persona di buon senso sorge marzullianamente spontanea): con quale mano è stata presa e lanciata l’arancia al centro del telo?

Chirù di Michela Murgia non mi piace per un buon numero di ragioni, ma questa forse è quella che pesa di più. Uno scrittore deve saper descrivere i gesti. I gesti sono importanti; sono il sangue, la fisicità, la verità di un racconto. Se l’autore descrive una scena in cui sono chiaramente impegnate due persone con tutte e quattro le mani, non può inserire un gesto per il quale ne servirebbe una quinta! Semplicemente non può. Se lo fa, vuol dire che scrive a vànvera.

Aggiungo che, oltre ai gesti, uno scrittore dovrebbe essere abile a descrivere le emozioni. Consentitemi dunque un’altra citazione.

La protagonista è (come vedremo tra poco) un’attrice e qui dovremmo poter partecipare di quel portentoso istante che passa tra la fine dello spettacolo teatrale e il momento dell’applauso.

Ebbene, l’emozione viene narrata così: «[…] qualcosa di teso mi si sciolse dentro, ricominciò a scorrere nelle arterie, negli alveoli dei polmoni e nei gangli dei precordi, rendendomi fluide anche le ossa».

Orsù, perché non aggiungere anche un romantico balzo dei trigliceridi? Un’accorata dilatazione delle vie biliari?

Ironia a parte, vi chiedo: è così che si raccontano le emozioni?

Ve lo confesso, scrivo queste righe e mi sorprendo di me stessa e della mia faccia tosta. Sarà effetto del vaccino, ma è la prima volta che mi concedo di scrivere male di un libro. In tanti anni di recensioni non avevo mai osato. Dicevo a me stessa che sarebbe stato sciocco sprecare del tempo prezioso a commentare l’incommentabile. Ma in fondo no, non si trattava di come impiegare o non impiegare il mio (povero) tempo. Si trattava invece – si tratta sempre – di timidezza, di quel senso di inadeguatezza che mi sta attaccato ai piedi come l’ombra e che mi induce a chiedermi chi sono, chi sono io, per potermi permettere di dire la mia?

Gli autori famosi, si sa, sono muti e sideralmente lontani. Se scrivi bene di loro, non ti diranno nulla (neanche grazie, ça va sans dire), ma se osi criticare, oh… eccoli riemergere dal silenzio come defunti dal sacello in un film di zombie per venire a chiederti: «Ma tu, tu, per ardire a giudicarmi, tu chi saresti?»

(Notare la raffinata sciabolata del condizionale, che sottintende «Chi saresti, se tu esistessi? Ma nemmeno esisti…»).

Ebbene, oggi travalico questi pensieri e questi timori, e beatamente me ne infischio.

Lo ammetto: non avevo mai letto niente di Michela Murgia, nemmeno l’acclamato Accabadora, perciò nulla posso o voglio dire delle altre sue opere, che forse sono meritevolissime.

È piuttosto curioso, in effetti, che io non abbia mai preso in considerazione di leggerla. Dopotutto la conosco (chi non la conosce?), la ascolto volentieri, la trovo intelligente, sagace, acuta. Mi piace! Ne apprezzo le presenze in tv, la spigliatezza, la capacità affabulatoria, la vis polemica, la battuta pronta e tagliente…

Ecco, qui sta il punto, temo. Mi riesce difficilissimo far coincidere queste personalità esuberanti con quella dello scrittore come io lo idealizzo: creatura ritrosa, discreta ai limiti dell’invisibilità.

Tuttavia la vita ha deciso per me e nei giorni scorsi mi è capitato  di leggere Chirù (pubblicato da Einaudi nel 2015) in quanto libro scelto da un gruppo di lettura di cui faccio parte.

Eleonora, affermata attrice sui trentotto anni, donna affascinante, felicemente libera e indipendente nelle sue scelte di vita e d’amore, viene avvicinata da Chirù, giovanissimo studente di violino, che le chiede di –sono in imbarazzo, perché si capisce ben poco di cosa le chieda – … diciamo di diventare sua mentore.

Ne nasce un rapporto di – scusatemi, sono nuovamente in imbarazzo perché non si capisce nulla del rapporto che nasce e del perché nasca – … diciamo di tenera amicizia, attrazione erotica, amore, dipendenza, eccetera eccetera.

Sin dalla prima frase, ho pensato «Toh, come scrive bene la Murgia!»

Sentite che incipit poetico: «Chirù venne a me come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva».

Perciò ho iniziato di gran lena la lettura, sicura di incontrare tra le parole così elegantemente disposte, come raffinate stoviglie su una tavola, anche una bella storia.

Ma, ahinoi, PER SCRIVERE BENE, NON BASTA SAPER SCRIVERE BENE.

Lo metto così, maiuscolo e lapidario, affinché vi resti sotto gli occhi.

Immaginate un muratore che abbia tutto il materiale necessario – mattoni, malta, cazzuola – ma che  non sappia tirar su un muretto. Ecco, allo stesso modo, Michela Murgia ha tutto – potenzialità di penna e ottime intuizioni – eppure non riesce a costruire niente.

Le frasi sono belle come sono belle e trasparenti le esuvie che alcune bestiole abbandonano sulla via: involucri ormai senza vita, vuoti di anima e di senso.

I dialoghi sono brillantissimi, scaltri, veloci e arguti da fare invidia. Peccato che nella vita nessuno parli così.

Non c’è una storia, i personaggi non hanno nulla di autentico, le circostanze non sono plausibili.

Perché un giovane violinista debba rivolgersi a un’attrice, rimane un mistero irrisolto. Non c’è nulla che possa giustificare la richiesta di Chirù né la immediata disponibilità di Eleonora.

E poi, in questo rapporto tra pigmalione e allievo, cosa di preciso dovrebbe insegnargli Eleonora? Lo porta in sartoria, lo porta con sé alle feste… Si tratta di educarlo a vestirsi meglio, a conversare briosamente, a gestire le ambizioni, a maturare, a… cosa?

Vaghissimi sono i riferimenti agli “allievi” precedenti, Teo, Alessandro e Nin. Di Nin sappiamo che è morto suicida (non proprio una sciocchezza, anzi, una vera bomba dal punto di vista narrativo, che però non trova approfondimenti né spiegazioni attendibili).

Non vi dirò null’altro, vi annoierei e mi annoierei nuovamente anch’io.

Vi dico solo che, in questa trama di ragno che tremola da tutte le parti, c’è tanta, davvero tanta – troppa! – carne al fuoco.

I conflitti con la famiglia d’origine, specie con l’iroso padre, che ad un certo punto Eleonora ricorda di aver “trascinato in tribunale” (ma non aspettatevi un chiarimento nemmeno qui; è solo una delle tante informazioni gettate alle ortiche); il rapporto di confidenza con l’ex compagno; le frequentazioni romane, la cena con i produttori (in stile La grande bellezza di Sorrentino); l’amicizia profondissima con Teresa (quella dei mandarini).

Troppo, davvero troppo, per un romanzo così breve e così approssimativo.

Senza dimenticare la cenerentolata finale, all’insegna dei più triti stereotipi sul corteggiamento e sul rapporto uomo/donna che Michela Murgia tanto si affanna a condannare: l’amore nuovo di Eleonora con Martin von Lothringen, riccone e fascinoso direttore del Teatro dell’Opera di Stoccolma. Embè, un Mario Urru tecnico luci di Cagliari mica poteva andar bene…

Fa caldo, forse mi sono confusa. Pensavo di leggere Michela Murgia e invece era Rosamunde Pilcher.

 

Michela Murgia

Chirù

Einaudi, Torino 2015

  1. 190, euro 18,50