Due scrittrici della nuova Italia

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La Marchesa Colombi e Bruno Sperani: dietro gli pseudonimi, due donne di talento

di Fulvio Senardi

 

Se agli occhi del lettore di oggi la letteratura femminile del secondo Ottocento (quando a piccoli passi le tematiche dell’emancipazione cominciano a trovare una più ampio eco sociale) inizia ad acquistare contorni più netti, lo si deve ad alcune opere che, ripubblicate dopo un secolo o quasi d’oblio, sono ormai facilmente reperibili, se non direttamente sugli scaffali delle librerie, con un semplice clic sul computer da parte del libraio competente. Mi riferisco in particolare a Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi pubblicato da Interlinea con presentazione di Giuliana Morandini e nota biografica di Silvia Benatti e a La fabbrica di Bruno Sperani edito da Unicopli, a cura e con prefazione di Paolo Croci.

Praticamente coetanee – la Marchesa Colombi, ovvero Maria Antonietta Torriani nasce a Novara nel 1840, Bruno Sperani (nella vita vera Vincenza Sperac detta Beatrice) a Salona, in terra dalmata, nel 1839 – insieme a un gruppuscolo non troppo scarno di altre scrittrici, impongono nella Nuova Italia sabauda che andava lentamente facendosi nazione, le tematiche dell’emancipazione femminile (e, motivo complementare, quello dell’ipocrita conservatorismo borghese), coniugate, in particolare nel caso della Sperani, con una visione politica apertamente radicale, se non socialista, e su uno spartito letterario di moderato realismo post-romantico (Zola è autore letto, apprezzato ma non imitato quanto alla poetica dell’impersonalità), arricchito con i pimenti quasi pre-espressionistici della scapigliatura. Il fronte della scrittura femminile è comunque, in quello scorcio di secolo, ampio e frastagliato: una polifonia che descriveremo prendendo a prestito le osservazioni di G. Blaas in una pregevole tesi di laurea (L’opera narrativa di Bruno Sperani): «se Marchesa Colombi e Neera sono, in Lombardia le scrittrici più attente ad analizzare le situazioni femminili più drammatiche e squallide, subite dall’esterno ed interiorizzate in conflitti difficilmente risolvibili, Bruno Sperani fa della condizione femminile una tappa di un disegno di evoluzione sociale più generale, anche se non ben definito. […] Collocherei la Sperac fra il limite ‘borghese’ della Colombi, di Neera e della Roti e la linea ‘riformista’, più o meno arrabbiata, che va dalla Mozzoni fino all’Aleramo, con la Kuliscioff, la Mariani, la Olper Monis, Anna Franchi, Leda Rafanelli». Squallore appunto: quello di un’esistenza borghese che si chiude come una morsa intorno alla protagonista di Un matrimonio in provincia, soffocata dentro i muri invalicabili delle forme e delle consuetudini sociali e, in quanto fanciulla da marito, condizionata dal problema della dote (della ‘roba’, come ha scritto con più crudezza, in riferimento all’ambiente rusticale, il maggiore scrittore del momento, Giovanni Verga). «È difficile immaginare una gioventù più monotona, più squallida, più destituita d’ogni gioia della mia», così l’inizio del romanzo. «Ripensandoci, dopo tanti e tanti anni, risento ancora l’immensa uggia di quella calma morta, che durava, durava inalterabile, tutto il lungo periodo di tempo da cui erano separati i pochissimi avvenimenti della nostra famiglia». L’amore (qualche sguardo insistente, una sola affettuosa stretta di mano), che sfiora la protagonista Denza Dellara nella persona di Onorato Mazzucchetti, un giovanotto che le volterà le spalle attratto dal miraggio di matrimonio vantaggioso, è piuttosto una fissazione sentimentale di stampo bovaristico che una trascinante passione del cuore; ed è proprio il cuore che non entra affatto in gioco quando Denza, che a 25 anni si sente ed è considerata ormai sfiorita, pronuncia il sofferto sì. Si fosse tolta la vita dopo la grande delusione sarebbe rientrata nella grande schiera delle eroine romantiche: ripiega invece nella realtà grigia dell’ipocrisia di provincia adattandovisi senza troppo tormento. L’involontaria ironia di cui la correda l’autrice è il segno più netto della distanza intellettuale e morale della Marchesa Colombi nei confronti del suo personaggio: «Così, dopo tutti quegli anni d’amore, di poesia, di sogni sentimentali fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo che, quel giorno dell’incontro con Scalchi, aveva acceso lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona ispirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso».

Altro discorso per La fabbrica: qui scendiamo più sotto nella scala sociale, non forse tra gli ultimi, ma fra il proletariato degli operai dell’edilizia (e ‘la fabbrica’ è appunto un cantiere milanese negli anni, ma quali non lo sono stati?, della speculazione), sfruttato dai padroni, dagli affittuari, dagli usurai, controllato dalla questura che sospetta un ambiente dove germogliano, e come non potrebbero?, tentazioni sovversive. Un proletariato che accarezza velleità di ribellione sociale, e sogna il riscatto futuro che potrà solo venire però, come intuisce qualche mente lungimirante, da un movimento operaio consapevole dei propri fini e solidamente organizzato. Nel misero ambiente delle case di ringhiera nascono invidie, odi e anche amori, a garantire un quoziente minimo di solidarietà sociale, come quello che lega Luisina Terragni, ragazza madre con un figlio all’ospizio dei poveri dove chiuderà, bambino, per sempre gli occhi, e Francesco Bitossi, un muratore che ha conosciuto la prigione perché ‘sovversivo’. Sarà vittima del crollo di un edificio in costruzione – materiali scadenti e lavoro frettoloso, così come imposto dall’impresario – spingendo Luisina a un gesto irreparabile: uccidere il proprio seduttore, uno di coloro che rendono un inferno l’esistenza della gente povera ma perbene. «Forse, se l’avessero lasciata sola subito, allorché la salma di Francesco veniva tolta ai suoi baci disperati, ella sarebbe corsa a buttarsi in acqua , o sotto un carrozzone per essere stritolata; ma appena passato quel primo istante, la reazione si era fatta nella sua fibra robusta di popolana. […] In fondo a tutti [i suoi] dolori, ella aveva trovato, unica causa, la prepotenza altrui, l’ingiustizia trionfante, eretta a sistema. Così era scoppiata nell’anima sua, per un impulso invincibile di forza troppo compressa, l’urlo della rivolta. – Ammazzerò, ammazzerò – aveva gridato sul suo letto di dolore, mordendo le coltri per non essere intesa. Le giustificazioni, i ragionamenti erano venuti poi, per combattere i dubbi e sostenere la volontà vacillante. Ma la sua vera forza veniva dall’istinto della rivolta e della difesa contro gli strazi patiti, contro le feroci ingiustizie». Felice riscoperta dunque, questo libro, non solo di una scrittrice ma di una questione, quella operaia, che al giorno d’oggi non è più di moda nemmeno presso quei partiti soi disant di sinistra che idolatrano il ‘mercato’ e che forse dovrebbero invece ritrovare valori e vocazione, con meno remissività nei confronti dell’ideologia dominante (Marx e Gramsci hanno pensato e scritto invano?) Così Bruno Sperani nel 1894, sul «Fanfulla della Domenica», qualche anno prima che Bava Beccaris facesse tuonare i cannoni contro il popolo affamato: «Non ho mai scritto libri di propaganda: o, se pure, questa propaganda riguarda soltanto le idee generali di giustizia, di progresso, di libertà. […] Il mio spirito non è incline a un’arte di questo genere. Ma chiamare l’attenzione dei lettori su tutto ciò v’ha di crudele, di perverso, di vile in certi pregiudizi, e perfino in certe leggi che passano onorate nel mondo; ma diffondere il sentimento della pietà per gli oppressi ed i calpestati; e il disprezzo dell’ipocrisia e della slealtà – questo sì, questo risponde completamente all’indole del mio spirito, ed è quasi senza la mia volontà, lo scopo generale di ogni mio libro».

 

La Marchesa Colombi

Un matrimonio in provincia

Interlinea, Novara 2019

  1. 120, euro 10,00

 

Bruno Sperani

La fabbrica

Unicopli, 2014

  1. 194, euro 16,00