Migranti dalla Galizia

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Miseria, fame, analfabetismo spingevano i diseredati della regione tra le attuali Polonia e Ucraina a tentare la via dell’emigrazione

Storie di disumana ferocia che ricordano alcune delle vicende delle migrazioni dei nostri giorni

di Gabriella Ziani

 

Vivevano in capanne primitive, assieme alle capre. Niente da mangiare, li chiamavano «gli uomini d’aria», sembrava si nutrissero solo di quella. Si lavavano sputacchiando un po’ d’acqua sulle mani. D’inverno c’era una sola mantella di pelliccia di pecora e un solo paio di stivali per tutta la famiglia, spesso purtroppo numerosa. Braccianti, facchini, lavoratori a giornata, quasi tutti analfabeti. Vittime di tifo, difterite, tbc, e colera a ondate e di frequenti catastrofi naturali, siccità e conseguenti carestie. La Galizia – oggi spartita fra Polonia e Ucraina – era a fine ’800 la regione più arretrata e cupa di tutta l’Austria-Ungheria. A queste condizioni inumane si accompagnavano corruzione, violenza, alcolismo, gli ebrei erano aggrappati ai loro rigidi rituali, per gli altri la Chiesa ci metteva del suo imponendo fino a 200 giorni di digiuno all’anno. Un industriale polacco fece un’indagine in loco, ne dedusse che «il galiziano lavora la metà di un uomo, ma mangia per un quarto. Lavora poco perché non mangia abbastanza, non mangia abbastanza perché lavora poco, e muore presto perché si nutre male». La vita media non superava i 27 anni (in Inghilterra i 40). Migliaia di derelitti seguirono allora le lusinghe della sirena: andare in America, dove le strade sono lastricate di oro, così correva voce. E trovarono un girone infernale ancora peggiore: sfruttamento, miseria, truffe, fame e malattie.

È una storia di disumano strazio, con punte di nero divertimento. L’ha raccolta Martin Pollack, giornalista, scrittore e traduttore austriaco più volte premiato, di cui l’interessante casa editrice Keller di Rovereto ha già pubblicato Paesaggi contaminati (2016), Galizia (2017), Il morto nel bunker (2018), Topografia della memoria (2021). Ecco qui adesso L’imperatore d’America. La grande fuga dalla Galizia, un impressionante reportage che fa base su notizie di cronaca e giudiziarie, e ricostruisce una storia collettiva e in qualche caso il destino individuale (picaresco e coraggioso) di più di un personaggio e di alcune famiglie. Ogni storia, ogni dettaglio, ci risuona peraltro dolorosamente attuale. I migranti di oggi, il rischio della vita, i morti in mare, i piedi rotti dei “camminanti”, i trafficanti di uomini, il chiasso politico, il rifiuto, lo sfruttamento: la storia si ripete, eccome, soprattutto nei suoi lati peggiori. Pollack dunque, con questa indagine rigorosa e anche succosa, ricca di infinite notizie affidate a una scrittura empatica, fa anche un’operazione a specchio, ci parla dei fatti e della politica di oggi con la storia di ieri – che poi è il compito primario della storia stessa.

In quel contesto di tale indecente arretratezza, dove la terra non bastava per tutti e non si poteva intravedere alcuno spiraglio di miglioramento (la corte di Vienna era molto lontana…), oltre un quarto della popolazione ebraica tra 1881 e 1910 decise di partire per quel misterioso “non so dove” che era l’America di cui aveva sentito magnificare gli splendori a portata di mano. Ma non appena gli ardimentosi muovevano un piede, ignoranti e inesperti com’erano, venivano accalappiati da una tentacolare rete di agenti, subagenti, procacciatori d’ogni mestiere e qualità (spesso essi stessi ebrei) al soldo delle grandi compagnie di navigazione di Amburgo, che nel trasporto di emigranti oltreoceano avevano fiutato un cinico affare d’oro. Con trucchi, blandizie e violenze i miseri venivano obbligati ad ammassarsi a Oświęcim, e cioè ad Auschwitz, che per la sua collocazione confinaria con la Prussia diventò centro di raccolta e smistamento: città che davvero tra campi per migranti e campi di concentramento nazisti si è conquistata la bandiera nera. Spogliati dei loro pochi quattrini, truffati sul costo dei biglietti, sul “tutto compreso” che tale non era, se riuscivano a salire sulla nave finivano ammassati nell’interponte, cioè il bassofondo, una sorta di carro bestiame, nel puzzo e senza cibo, per un viaggio di quasi venti giorni.

I delinquenti li avevano trattati da bertoldi quali erano. Facevano suonare, a pagamento, una sveglia (i galiziani mai avevano visto un orologio), spacciandolo per il telegrafo con cui si parlava direttamente all’«imperatore d’America», il quale lì per lì mandava dire che aspettava ciascuno a braccia aperte, offrendo case e terreni a tutti. Quando si aprirono le rotte per il Brasile – in questo caso con partenze anche da Trieste – ancora più succulente invenzioni vennero propinate ai morti di fame. Che il figlio dell’imperatore d’Austria, Rodolfo, non era morto a Mayerling, ma era in Brasile per fondare un nuovo impero e cercava nuovi sudditi. Che in quella terra magica cresceva l’albero del latte, bastava incidere la corteccia e il latte sgorgava. Che grattando la terra subito veniva fuori l’oro. Che tutti i lavori domestici li facevano le scimmie. Che non occorreva nemmeno seminare i campi, perché il raccolto veniva su da sé.

Chi riusciva a sopravvivere alla traversata finiva, in America, nelle grinfie dei procacciatori di lavoro a basso o nullo costo, a rischiare la vita per dodici ore quotidiane nelle acciaierie, nelle miniere di carbone, nelle ferrovie, nei latifondi, con rischio di esplosioni, crolli, incendi. Paghe irrisorie, abitazioni da porcile. Un proprietario terriero se ne inventò ancora una: disse ai lavoranti che negli Stati Uniti una legge vietava di chiedere la paga, chi osava farlo veniva rispedito a casa sua. In Brasile questi che avevano creduto alle più fantasiose scemenze si ritrovavano più poveri che in Galizia, dove sognavano adesso di poter tornare. Dovevano disboscare foreste, prosciugare paludi, o essere schiavizzati nei campi di caffè, e morivano come insetti, spesso di febbre gialla, se avevano figli ne sopravviveva uno su tre, se la famiglia era rimasta ad attenderli scarsi spiccioli potevano mandare a casa – anche perché ignoravano l’esistenza delle banche. Poche, ma ben documentate, le storie di successo che Pollack segue passo per passo.

Questi maneggi di massa (830 mila emigrati nel 1900) in Europa davano sì fastidio, ma da un lato ci guadagnavano in troppi, perfino funzionari statali e doganieri corrotti, e dall’altro, essendo ebrei molti di coloro che lucravano sugli ebrei, altri ebrei preferivano voltarsi dall’altra parte per non rinfocolare il sempre attivo antisemitismo, mentre le vittime non denunciavano perché, dello Stato, avevano sospetto e paura. Si era creato un perfetto meccanismo chiuso di connivenze e convenienze. Questa dinamica distorta fu dirompente anche quando sui 15 mila abitanti di Brody (la città natale di Joseph Roth) si riversò una massa di 20 mila straccioni ebrei spauriti e feriti proveniente dalla Russia, dove dopo l’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881 erano scoppiati violenti disordini, che avevano dato fuoco a un violentissimo pogrom. Anche questi sognavano l’America, dove non c’era uno zar, e finalmente si crearono associazioni filantropiche per aiutarli ad arrivare nella solita Auschwitz e di seguito all’imbarco. Ma nessuno li voleva, men che meno – nuovamente – gli ebrei tedeschi, sempre per paura di persecuzioni.

Sinché un giorno del 1888 un ufficiale di polizia onesto organizzò una vera e propria retata ad Auschwitz nelle sedi della principale agenzia marittima, la Hapag, scoprì galiziani ammassati nel vicino albergo compiacente in condizioni peggio che animalesche, furono arrestate 60 persone, agenti, subagenti, osti, locandieri, complici, tutta l’allegra compagnia di trafficanti e truffaldini. L’anno dopo andarono a processo in 66, con 439 testimoni, saltò fuori che in un solo anno l’agenzia di Amburgo aveva traghettato in America (dopo averli taglieggiati) oltre 12 mila disgraziati. Tale era la furia di guadagnarci sopra che in un paio di casi era accaduto l’inverosimile: normali viaggiatori in transito furono costretti con la brutalità a comprare il biglietto, e si ritrovarono recapitati in America come un pacco, nudi e crudi, per non essere stati in grado di sfuggire a simili grinfie.

Al processo, che fece assai clamore, si parlò chiaramente di «traffico di esseri umani». Si chiuse con 31 condanne su 66 incriminati, pene dai due ai quattro anni, ridotte dopo un anno «per grazia imperiale»: Francesco Giuseppe aveva espresso il proprio benvolere. Ma forse non gli era giunta notizia che in Galizia (ma anche in Russia e Polonia) era fiorente pure la tratta delle donne, e che in campo c’erano le «fabbricanti di angeli». Nel primo caso ragazzette sepolte dalla miseria degli shtetl venivano allettate (spesso da donne) con la promessa di diventare, in meravigliosi luoghi fatati come Costantinopoli, bambinaie, cassiere di stupendi caffè, ballerine e via cantando. Ovviamente erano destinate a bordelli, in codice venivano definite «cucchiaio d’argento» se molto belle, carne per ricchi, «farina» se brutte, da sbattere in qualche lupanare. Tra fine ‘800 e inizi ‘900, ci dice Pollack, ogni anno dalla Galizia venivano avviate alla prostituzione migliaia di ragazze, da nessun’altra parte era più facile accalappiarle. Non sarebbero mai tornate indietro, perché i magnaccia trattenevano tutto il denaro mantenendole in una costante situazione di debito e schiavitù. Quanto alle «fabbricanti di angeli», fingevano di adottare neonati di ragazze madri, prendevano il denaro e poi li lasciavano morire, oppure li uccidevano direttamente. Non di rado le famiglie mandavano poi la figlia colpevole “in America”, col destino che ci si immagina.

Tutto questo finì non per grazia divina, ma perché scoppiò la prima guerra mondiale. E anche i soldati triestini di leva che l’imperatore spediva a combattere in Galizia da lì se ne volevano andare, perfino sparandosi sui piedi, e anziché come emigranti, vista la situazione bellica, son passati alla storia con il più domestico soprannome di “demoghèla”. Da ultimo la Galizia medesima è scappata da se stessa, il suo tramonto arrivò nel 1918 con il crollo dell’impero austro-ungarico, fu divisa fra due Stati. Tracollarono anche le agenzie marittime che con lo sporco affare avevano guadagnato come un multimilionario di oggi, e il principale imprenditore del ramo – di cui seguiamo qui l’ascesa dalle stalle alle stelle – il 9 novembre di quello stesso 1918 si tolse la vita, a 61 anni.

 

 

Martin Pollack

L’imperatore d’America

La grande fuga dalla Galizia

traduzione di Enrico Arosio

Keller editore, Rovereto, 2022

  1. 266, euro 18,00