Pietro Bembo in pillole

| | |

Invito alla lettura del grande umanista

di Fulvio Senardi

 

Voglio essere sincero. Ciò che mi ha spinto e comprare e a leggere il Bembo di Luca Marcozzi è stata soprattutto la curiosità di vedere il miracolo di un Bembo – scrittore da filologi, longevo protagonista (nasce nel 1470, muore nel 1547) della fase più matura del Rinascimento – presentato, perché tale sembra essere la più ovvia vocazione di una collana di “pillole”, a un pubblico eterogeneo di non specialisti, come una sorta di “introduzione alla lettura”.

Per quanto mi riguarda ricordo tutto o quasi tutto di lui, avendolo imposto per decenni ai miei studenti, con gradimento direttamente proporzionale all’età degli stessi. Il paradosso che usavo per incuriosirli, poco e male al Liceo assai meglio all’Università, era che Bembo aveva fatto di più di Garibaldi per l’Unità d’Italia. Mi spiego: Bembo offre alle élites della Penisola un codice espressivo per la lingua letteraria di altissimo prestigio e destinato a imporsi, codice che le unifica nel segno di Petrarca (poesia) e Boccaccio (prosa). Una norma statica per una società statica, gerarchica e classista, la società post-mercantile e post-umanistica della “rifeudalizzazione”, su cui ha scritto pagine indimenticabili Ruggero Romano. Poi quando comincerà a sorgere, nel Settecento, una sensibilità nazionale, gli aristocratici, i notabili, gli intellettuali delle mille città della futura Italia si accorgeranno di scrivere (non di parlare, attenzione!) nella stessa lingua, e sarà facile per l’Arcadia, costituirsi come accademia “nazionale”, primo germe moderno di una sociabilità sovra-regionale. “Colpa”, di Bembo insomma, per quanto non solo sua, la nascita di una comunità letteraria nazional-elitaria, per far mia, rovesciandola, l’espressione gramsciana.

Mariozzi indica molto bene questi percorsi e queste responsabilità: per interposta persona (il fratello Carlo) Bembo formula nelle Prose della volgar lingua (1525) “una teoria della lingua volgare che, fornendo una grammatica basata sui modelli illustri trecenteschi, la sottraesse alla precarietà e alla mutabilità cui la esponevano le teorie cortigiane, secondo cui il volgare illustre italiano doveva essere la conseguenza mescidata dei vari idiomi in uso nelle corti rinascimentali” (p. 74). Si impone dunque la norma unitaria: Petrarca (Canzoniere) – Boccaccio (piuttosto le opere minori in prosa, per es. il Filocolo, che il Decameron, indiziato di “popolarismo”), scelti a modello di bellezza unica, immutabile, imperitura, seguendo la sensibilità classicistica del Rinascimento che svalutava l’effimero e l’accidentale, ciò che è immerso nella temporalità e con essa si trasforma. Il volgare, pertanto, modellato come il latino (ma con il vantaggio di una base più ampia di fruitori, che comprende anche le donne, e da qui la fioritura cinquecentesca di poetesse), “imbalsamato” nella forma rigida e a-storica di una Grammatica: «le Prose della volgar lingua», conclude Marcozzi, «costituirono una grande novità destinata ad avere conseguenze di lungo corso, atal punto che nella lingua letteraria italiana c’è un prima e un dopo quest’oprera che segna uno spartiacque decisivo nella considerazione per il volgare» (p. 71). Allo stesso progetto concorrono le Rime di cui Mariozzi illustra con competenza il faticoso cammino verso la compiuta realizzazione di un’idea del classico, che non esclude, rispetto a Petrarca, accolto qui come modello operante per ragioni di stile e di lingua, qualche innovazione. Il ricorso all’enjambement, per esempio, o la personalizzazione delle ambientazioni dell’infelicità dell’amante non ricambiato, non più le selve petrarchesche ma piuttosto le spiagge della concreta esperienza veneziana dell’autore. Ed è fine l’osservazione che i germi di novità nel canone petrarchesco di Bembo finiscano per preparare più decisive trasgressioni. La logica del perfetto e immutabile non consente deroghe: la storia, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.

La lirica del Della Casa, “discepolo” del Bembo, è già altra cosa, e guarda avanti al Tasso e ai bizzarri esperimenti di un Seicento “avanguardista”. Anche per quanto riguarda la teoria d’amore, tema centrale della società cortigiana, Bembo offre il suo apporto di originalità nei dialoghi degli Asolani, frutto del periodo ferrarese quando il rampollo della classe mercantile veneziana assaggiò per la prima volta il frutto saporoso della vita di corte, ricavandone una fascinazione indelebile. Più che ovvio che l’opera si concluda con la lode dell’amore spirituale del terzo libro, lungo un cammino già tracciato dal Ficino, che, su base platonica, ritrova la dottrina cristiana. Che tutto ciò non rappresenti che un distillato del raffinato edonismo delle corti è peraltro più che ovvio. Ma manca, al confronto con altri trattatisti cinquecenteschi (penso per esempio al Dialogo dell’infinità d’amore, 1547, di Tullia d’Aragona, “cortigiana honesta”) la volontà esplicita di rivendicare un ruolo importante al corpo e alla sensualità. Di nuovo insomma, come per la lingua, in una dimensione di astrazione spiritualeggiante. Ma non mancano altri motivi di interesse nell’agile “invito alla lettura” di Marcozzi: per esempio la sottolineatura, ampiamente argomentata, dello stretto legame di Bembo con il mondo dell’editoria che mostra un intellettuale capace di salpare verso nuovi continenti, come il contemporaneo Colombo, e capace di seguire passo passo la produzione del libro a stampa.

Un autore che è, insomma, anche editor di se stesso e che ha come interlocutori tipografi partecipi di uno stesso coltissimo clima e di un medesimo raffinato progetto (Aldo Manuzio, fra gli altri).

Giustamente Marcozzi indica nel conflitto tra due opposte scelte di vita: otium e negotium, il quesito lacerante dell’esistenza di Pietro Bembo. Un’antitesi che il padre Bernardo aveva portato a sintesi fondendo nella propria vita l’impegno pubblico e la passione per l’erudizione. Come lui, Pietro oscilla tra il richiamo della cultura, e il desiderio di emergere nel campo della diplomazia, tra lo spirito delle Corti, nelle quali la letteratura, intesa come quintessenza della raffinatezza aristocratica, svolgeva la funzione di ristrettissimo codice d’appartenenza, e le esigenze di una vita attiva. Sintesi impossibile se non nella Chiesa, ed è alla Chiesa che Bembo offrirà la sua operosità, alle dipendenze di Leone X, come ambasciatore e alto funzionario della cancelleria incaricato di stilare i brevi apostolici, che vorrà poi, non senza ritoccarli, pubblicare. Una appartenenza vantaggiosa che favorirà la sua elevazione nel 1539, quasi settantenne, alla porpora cardinalizia (così come lo ritrae Tiziano), per decisione di papa Paolo III, il papa dei Gesuiti e del Concilio di Trento.

Tutto bene dunque in questa “pillola” così felicemente erudita? Sì, con una sola pecca. Aver articolato in tre capitoli, il I, il III e il V, La vita, Le opere volgari, e Pietro Bembo e il suo tempo il racconto biografico, l’analisi delle opere più rilevanti e la discussione sui contenuti di ideologia e di poetica, espone Marcozzi al rischio, non sempre evitato, di frammentare e ripetere, imponendo al lettore di ricongiungere, con un certo sforzo, i fili spezzati. Certo, il materiale è ampio, le questioni scottanti, le tematiche da affrontare e dirimere numerose: proprio per questo un maggiore equilibrio tra le parti – per esempio riducendo all’osso le informazioni della Vita per non doversi ripetere nei capitoli successivi – avrebbe giovato. Comunque, valente l’autore, che ci offre un agile sunto non solo dell’opera del Bembo ma della cultura rinascimentale, il momento di massima creatività della cultura “italiana”, e coraggioso l’editore. Questo Bembo non diventerà, è più che ovvio, un best-seller editoriale, e mi domando quanti lettori non specialisti vorranno misurarsi con un autore che sta svanendo dalla memoria collettiva. Comunque, all’autore e all’editore, chapeau!

 

 

Tiziano

Il cardinale Pietro Bembo

1539

Washington,

National Gallery of Art