Dulcis in fundo al Senato

| |

Sta vivendo le ultime giornate la XVII legislatura, che certo non sarà rimpianta dai cittadini e forse neanche dai politici, per le molte anomalie che in essa si sono manifestate anche in esito ai risultati elettorali del 2013, che non riuscirono ad assegnare a un partito o a una plausibile coalizione la maggioranza necessaria a governare il Paese.

È stata una legislatura travagliata, anche per altre ragioni, e per prima quella di aver voluto a ogni costo disegnare, contro la volontà di molte forze politiche e – come si è poi visto – di una larga maggioranza degli elettori, un nuovo assetto degli organi istituzionali, apportando pesanti modificazioni alla Carta costituzionale. Su quella vicenda e su altre – in primis i provvedimenti cosiddetti sullo “jobs act” e sulla “buona scuola” – ciascuno si sarà fatto un’idea, positiva o negativa. Si tratta comunque di risultati anch’essi profondamente divisivi del corpo elettorale e concausa dell’implosione di quello che era stato – sia pure di misura – il primo partito uscito dalle urne nel 2013, oltre che il trionfatore alle elezioni europee dell’anno successivo.

Quale che sia, ad ogni modo, la valutazione che ogni elettore può legittimamente farsi rispetto a quanto questa legislatura che si avvia alla conclusione ha prodotto, sembra tuttavia certo un dato che dovrebbe apparire sconfortante agli occhi di chi fa politica, e cioè il sempre più vistoso aumento dell’area di astensionismo che caratterizza, ormai a ogni livello, locale e nazionale, le tornate elettorali che si susseguono in Italia. Il fenomeno, naturalmente, ha plurime origini, ma non si può non constatare in esso una disaffezione causata da un sempre più evidente scollamento tra eletti (più correttamente: nominati) ed elettori, i quali ultimi faticano a riconoscersi in chi dovrebbe rappresentarli e che invece viene percepito come un privilegiato, preoccupato assai più di conservare o accrescere il suo status che di adoperarsi per il bene comune. La vicenda dei tristemente famosi vitalizi di parlamentari e consiglieri regionali, con il lieto fine (si fa per dire) pre-natalizio è paradigmatica, soprattutto in un’assemblea che non riesce a mettere a calendario una seria discussione sul cosiddetto ius soli, impedendo con ciò che i bambini figli di genitori stranieri nati in Italia e cresciuti qui possano accede al basilare diritto di cittadinanza, che invece spetta naturalmente al loro compagno di banco.

I lavori del Senato si avviano a conclusione, tuttavia, tra luci e ombre e tra le poche luci mi sembra possa ascriversi a merito di questa legislatura l’approvazione della normativa che regola il testamento biologico e il fine vita (approvazione intervenuta, sarebbe da dire, “in articulo mortis”, se non sembrasse una lugubre battuta di spirito). Con la nuova normativa si sono creati nuovi spazi di libertà per ciascuno di noi, cui finalmente è stata data la facoltà di decidere a quali trattamenti sanitari intende sottoporsi e a quali intende invece sottrarsi, allo scopo di andarsene dalla vita secondo la modalità che egli stesso giudica più opportuna e meno dolorosa. Con ciò dando piena attuazione all’articolo 32 della Costituzione, ove recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Questa, che chi scrive considera una conquista di civiltà, sarà sicuramente avversata da esponenti di una destra appiattita su posizioni di intransigente difesa della vita intesa come un dovere e non come un diritto. A questi ricordiamo che – com’è stato per esempio per il divorzio o per la legalizzazione delle unioni di fatto – nessuno è coartato a rifiutare trattamenti sanitari che lo mantengano in vita, come a suo tempo nessuno è stato obbligato a divorziare o a convivere more uxorio con persone del suo stesso sesso. Quanto si tenta di impedire è semplicemente la loro pretesa di imporre a tutti gli altri le scelte che loro considerano giuste.