Laureati ignoranti

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Nel 1917 il Giappone sganciò la bomba atomica su Pearl Harbor!

di Fulvio Salimbeni,

 

Il 12 giugno scorso Luca Ricolfi, editorialista del Sole 24 Ore, nei “Commenti e inchieste” ha pubblicato un ampio intervento, La disuguaglianza studia all’ultimo banco: accettiamo, come se non esistessero, i divari di nozioni dei giovani. Scuola, università e divari di conoscenza, in cui, forte della propria esperienza accademica, illustrava l’inarrestabile degrado delle conoscenze degli iscritti ai suoi corsi, incapaci di compiere banali sottrazioni, di scrivere correttamente una tesi di laurea, di svolgere ragionamenti organici e privi, troppo spesso, delle conoscenze di base.

Questa denuncia non ha destato eccessivo scalpore né attenzione nell’opinione pubblica, ma tocca veramente una delle questioni cruciali dell’attuale sistema universitario e dell’istruzione pubblica, su cui pare opportuno riflettere. Quanto rimarcato in quell’articolo non è un caso anomalo, dovuto a particolare sfortuna del docente, bensì il risvolto individuale d’una crisi generalizzata, di cui sarà bene fornire qualche esempio particolarmente illuminante, assicurando che quanto segue è pura verità e non una “spiritosa invenzione”, frutto di esperienze personali e di colleghi, che nei rispettivi insegnamenti danno il massimo, credendo ancora nel ruolo formativo dell’insegnamento universitario. Così, se una brava italianista ha scoperto, allibita, che Ariosto era contemporaneo di Leopardi, il sottoscritto, docente di Storia contemporanea nell’ateneo di Udine, ha appreso che, e queste che seguono sono soltanto alcune delle perle raccolte negli appelli d’esame degli ultimi anni:

– il presidente della Guerra Civile americana era Roosevelt,

– nel 1918 Trieste è rimasta all’Austria, perché l’Italia era stata sconfitta (in cambio, però, un altro studente m’ha informato che nel 1945 ci siamo presi la Dalmazia, avendo sconfitto la Jugoslavia),

– nella I guerra mondiale l’Inghilterra era alleata della Germania,

– la marcia su Roma ebbe luogo l’11 febbraio 1929,

– il New Deal degli anni Trenta fu opera del presidente Lincoln,

– la Resistenza iniziò nel 1945, contro gli Americani,

– il referendum istituzionale Monarchia – Repubblica si svolse nel 1959 (questo affermato cinque giorni dopo la celebrazione del 70° della Repubblica, a riprova, oltre tutto, che gli studenti leggono sempre meno i quotidiani),

– la riunificazione tedesca dopo la caduta del Muro di Berlino fu compiuta da Bismarck,

infine, il massimo,

– gli USA entrarono nel primo conflitto mondiale nel 1917 (fin qui giusto), perché il Giappone aveva sganciato una bomba atomica su Pearl Harbor!

Questo florilegio di assurdità, che potrebbe proseguire a lungo, è sintomatico del livello medio di coloro che attualmente frequentano le nostre università e il cui grado d’impreparazione peggiora d’anno in anno. È vero che ci sono, per fortuna, lodevoli eccezioni – in prevalenza ragazze, più motivate e determinate a farsi valere -, per le quali il 30 e lode è ancora poco, tali sono la loro preparazione, motivazione, passione e impegno, ma si tratta, appunto, di eccezioni, non della media.

Quali, dunque, le ragioni d’un tale sfascio? Da un lato sono le università stesse a esserne responsabili, causa i nuovi criteri didattici affermatisi a partire dall’inizio del presente secolo, in seguito alle ultime riforme ministeriali. Uno degli orientamenti prevalenti è quello di non essere troppo esigenti agli esami, cercando di promuovere il maggior numero di studenti possibile, perché, altrimenti, diffondendosi la fama della severità di quell’ateneo, ci sarebbero meno iscritti e, quindi, meno tasse d’iscrizione. Inoltre, per non affaticare troppo gli studenti, numerosi insegnamenti hanno visto ridotto il numero d’ore; così quello di storia contemporanea, un tempo di 50, poi portato a 70, data l’importanza e l’ampiezza della disciplina, ora in molti casi è stato ridotto a 40 (in cui si dovrebbe spiegare la storia mondiale degli ultimi due secoli), per non sovraccaricare gli studenti! Inoltre, essendo stato stabilito che uno studente (quasi fossero tutti uguali) in media legge sei pagine all’ora, il programma deve prevedere una serie di letture che non superi certi limiti numerici orari a seconda dei CFU (crediti formativi universitari) di quel corso. Uno studente, inoltre, può ripetere un esame all’infinito, finché per disperazione viene promosso con 18, mentre all’estero, al secondo tentativo fallito, è espulso dall’ateneo, e attualmente sempre più frequenti sono i casi di laureati con meno di 99/110, punteggio sotto il quale il diploma di laurea non ha alcun valore legale.

Oltre a ciò, negli ultimi tempi s’è assistito alla proliferazione di insegnamenti specialistici, a discapito di quelli fondamentali, con dispersione di forze e mezzi, e della preparazione di base, mentre, causa i tagli dei finanziamenti, le università sono costrette a ridurre gli acquisti di testi e gli abbonamenti a riviste italiane e straniere, diventando sempre più difficile assumere nuovo personale e, perciò, sovraccaricando di oneri didattici quello disponibile. In questo modo giovani preparati e di valore sono costretti a espatriare, venendo assunti all’estero e privando l’Italia di forze vitali e necessarie per il suo rinnovamento morale e civile. Un solo esempio al riguardo: due giovani fisici, forgiatisi in quel centro d’eccellenza che è la SISSA di Trieste, sono stati assunti rispettivamente nell’università di Wiesbaden e nell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, di prestigio internazionale, perché in patria non c’era un’università disponibile per loro.

Il vero problema, peraltro, sta a monte, perché sempre più spesso ci si pone la domanda di come studenti così impreparati siano potuti arrivare all’università, il che mette in discussione l’intero impianto delle scuole medie inferiori e superiori, in cui gli insegnanti – come ammettono molti di loro – troppo spesso ricevono la raccomandazione di non essere troppo severi ed esigenti, accontentandosi d’una preparazione generica e superficiale, senza contare che negli ultimi anni discipline umanistiche come storia, geografia, arte sono state drasticamente ridimensionate o, in alcuni corsi di studi, addirittura soppresse, in quanto giudicate inutili, per fare largo alla tecnologia e all’informatica, reputate il toccasana universale, così come s’è dato sempre maggior spazio allo studio dell’inglese a danno dell’italiano, pur considerato una delle prime quattro lingue a livello mondiale ed espressione d’una civiltà di primissimo ordine. Ridimensionate le prove scritte tradizionali, ormai si fa un uso crescente di test, quiz, questionari, nella presunzione che essi consentano un giudizio più obiettivo e inoppugnabile, mentre hanno un effetto devastante sugli allievi, sempre più poveri dal punto di vista intellettuale e logico.

Quanto ai docenti, la loro preparazione è sempre più discutibile così come lo sono i concorsi per l’ammissione all’insegnamento, con le rovinose conseguenze rilevabili. Tutto ciò tanto più addolora pensando a quanto, invece, lo stato liberale, sorto dal Risorgimento, avesse investito nella lotta per l’alfabetizzazione popolare e nella formazione di centri d’eccellenza universitari, chiamando a presiedere il Ministero della Pubblica Istruzione personalità, solo per ricordarne alcune più note, quali Francesco De Sanctis e Benedetto Croce, né si scordi che Mazzini ne I doveri dell’uomo indicava come una delle tre questioni fondamentali da risolvere, una volta conseguite unità, libertà e indipendenza dell’Italia, quella dell’Educazione, scritta con la E maiuscola, tale era l’importanza che le attribuiva. Non è certo con più informatica, inglese, impresa (le tre famose I d’un recente capo del governo) che si rifonderanno le nostre scuole e università, bensì mediante una vera e propria “rivoluzione culturale”, fondata su severità, rigore, onestà, dedizione, cercando di laureare giovani preparati e motivati, in grado d’affrontare la vita lavorativa con solide basi culturali e intellettuali.