Ma le donne…

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Per un nuovo Canone della letteratura italiana

di Francesco Carbone

 

Sarebbe un esercizio obbligatorio per ogni ateneo, club o congrega d’intenditori (di vino, di musica, di tiramisù, di poesia, ecc.) sottoporre la propria erudita competenza al rito, sempre pieno di suspense, di un po’ di assaggi al buio: se non altro per vedere l’effetto che fa.

Il rischio di cantonate abnormi e strafalcioni strepitosi sarebbe troppo alto? – Viene in mente la volta in cui, qualche decennio fa, tolte le etichette a una pila di LP, a critici e musicologi stupefatti da se stessi, risultò che la migliore esecuzione d’una essenziale sinfonia di Mozart fosse quella di Leonard Bernstein: questo quando Lenny era ritenuto ancora troppo swing e boogie, e insomma americano per il Canone che si dava allora per scientifico, esizialmente rococò e teutonico allo stesso tempo: passa solo un po’ di tempo, e ben altro si dice del genio di West Side Story e di Candide!

… Oppure, sempre giudicando senza sapere prima cosa, potrebbe capitare di far di nuovo la figura barbina dei critici laureati e degli storici accademici che s’incantarono a riconoscere il sublime Modigliani nelle sculture fatte col Black & Decker e alla svelta dai boccacceschi burloni di Livorno (1984).

Ora, che il mondo sia serioso e stupido lo mostra la stessa logica, del tutto borghese, che ci fa giudicare il valore di un quadro dalla sua attribuzione molto più che dalla sua qualità intrinseca. L’attribuzione a Leonardo del Salvator Mundi è appena del 2011, ed è solo per questa che il Dipartimento di Cultura e Turismo di Abu Dhabi l’ha acquistato per 450,3 milioni dollari, battendo ogni record precedente: immaginarsi l’economica tragedia se una qualche nuova perizia dimostrasse che quell’enigmatico Cristo non è dello stesso autore della Gioconda: si potrebbe uccidere per evitarlo.

 

In questo mondo in cui l’autore è l’opera, la letteratura non offre un terreno meno scivoloso. Costretti a restare insicuri su cosa abbia scritto effettivamente Dante, di cui non abbiamo neppure una firma, indecisi ormai se davvero I promessi sposi siano in tutto e per tutto meglio del Fermo e Lucia, ma ancora certi che il Tasso abbia fatto un bel disastro emendando la Gerusalemme Liberata per ridurla, enfia e retorica, alla Conquistata, viviamo pur sempre un tempo in cui proprio e solo la letteratura fa da cardine comune nella formazione dei giovani italiani. Dunque, posto che ancora un po’ la cosa conti, cosa insegnare?

Questo per tenere ancora per un po’ in piedi quella precaria quisquilia che è l’identità culturale del Paese… Oggi, poi, che siamo almeno al terzo decennio di ministri che sbagliano capitali, congiuntivi, dittature, date storiche elementari, collocazioni di trafori inesistenti, esternando persino l’idea che il corpo umano sia fatto quasi solo d’acqua, come quello delle meduse: il loro costante successo immortala la Patria.

Malgrado tutto questo, dobbiamo rassegnarci all’idea che ancora per un po’ un qualche Canone della letteratura italiana vada pur praticato. Possibilmente ricordandoci che quello che pareva assoluto e imprescindibile ai tempi del papa laico Benedetto Croce (il Carducci!) s’è in buona parte polverizzato senza rimedio; proprio come quanto proclamava essenziale la critica storicista-marxista degli anni Sessanta-Ottanta: il neorealismo! Conversazioni in Sicilia! La ragazza di Bube! Il segreto di Luca!, per non dire del Verga, redento e quindi propinato in dosi massicce ai fanciulli in quanto scrittore di sinistra a sua insaputa.

 

E si potrebbe continuare.

Ci limiteremo allora a ricordare come quel cattivaccio della nostra Letteratura, che speriamo resti a lungo Giacomo Leopardi, avesse già irriso e demolito la possibilità stessa di un Canone definitivo nella meravigliosa operetta Parini, ovvero Della Gloria (1828), nella quale osò scrivere che «la fama degli scrittori ottimi soglia essere effetto del caso più che dei meriti loro».

E sembra, con un po’ di senno del poi, di leggere Benjamin, quando, sempre nel Parini, Leopardi scriveva della tradizione come di quel «naufragio continuo e comune non meno degli scritti nobili che de’ plebei». Morale: «Che certezza abbiamo noi che la posterità sia per lodar sempre quei modi dello scrivere che noi lodiamo? se pure oggi si lodano quelli che sono lodevoli veramente…». Da qui il leopardiano pernacchio alla gloria, e al Canone, che a scuola si tende a tralasciare.

 

Dando quindi per scontato che si continuerà a proporre gerarchie letterarie tutt’altro che eterne, l’ultimo colto e intelligentissimo libretto di Federico Sanguineti (La storia letteraria in poche righe, il melangolo 2018) offre ragionamenti e materiali preziosi per iniziare la completa riscrittura del Canone letterario italiano: con conseguenze che dovrebbero essere non da poco sullo stesso senso comune della Nazione: sul senso e sul senno, volendo porre fine una volta per tutte alla desolante cancellazione (dall’Ottocento) della letteratura femminile.

 

Nello spazio di un articolo, l’esperimento al buio proposto all’inizio sarà minimo e certamente accusabile di essere tendenzioso; ma, sperando di far nascere almeno qualche sano dubbio nei cuori gentili, domandiamo: chi saranno gli autori, o le autrici, dei seguenti tre esempi? E chi si potrebbe sospettare più bravo? Attenzione, che almeno due sono classici, monumenti certificati in ogni seriosa antologia scolastica della letteratura italiana:

 

1.

Qui e voi che Marte non rapì alle madri

correte, e voi che muti impallidite

nel penetrale della Dea pensosa,

giovinetti d’Esperia..

 

2.

O Genovese ove ne vai? qual raggio Brilla di speme su le audaci antenne? Non temi oimè le penne Non anco esperte degli ignoti venti?

 

3.

Chi me, cui nella mente

Arde una fiamma di santissima ira,

Entro squallido tetto a prigion dira

Chi me condanna irrevocabilmente?

 

 

Il primo lacerto è di Foscolo (da Le Grazie, Inno II, Vesta, vv. 6-9, il carme su cui più si scervellò, e che lasciò incompiuto); il secondo estratto è del Parini (L’innesto del vaiuolo, vv. 1-4, ode portata ad esempio di una possibile poesia tanto fedele al classicismo italiano quanto modernissima per il tema); il terzo è di Maria Giuseppina Guacci Nobile (L’ode Le donne italiane, vv. 1-4).

 

La domanda da dove sbuchi questa Guacci ci colloca nell’età dell’oblio della letteratura femminile, escludendo – si spera – il Novecento e il tempo attuale di Patrizia Valduga, Patrizia Cavalli, ecc. – Ma leggiamo ancora un pezzettino, per far sentire come la Guacci sapeva maledire no meno meravigliosamente da lei amatissimo Leopardi (che a sua volta sapeva rubare da lei):

 

Maladico le stelle ad una ad una (…)

Maladico ogni fior che a l’aria bruna

Dolcemente riposa in su lo stelo

Maladico ogni cosa, ovunque io movo.

 

Questa poesia s’intitola Il dolore, e non abbiamo trovato modo di leggerla intera neppure nel web. Eppure la Guacci (Napoli 1807 – Napoli 1848) era stata, già per il molto misogino Francesco De Sanctis, «il centro della cultura napoletana» (La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, Torino 1953). Come mai non ne sappiamo nulla?

La scomparsa delle donne dalla letteratura italiana, la «tabula rasa» la chiama Sanguineti, è stato un delitto borghese. I due sicari principali Ugo Foscolo e soprattutto Francesco De Sanctis (Storia della Letteratura Italiana, 1870-71), manuale a lungo senza rivali, nel quale, quanto a donne, qualcosa si legge solo a proposito di santa Caterina da Siena: dopo di che, appena qualche nome sparso per avarissimo dovere d’inventario.

Erano altri tempi: all’università s’imparava che «la poesia della donna» non sarà mai, come per Alfieri, petrarcheggiare e pisciar sonetti, ma «l’essere vinta» (F. De Sanctis, Francesca da Rimini secondo i critici e secondo l’arte, in Nuovi saggi critici, 1873); era il tempo borghese in cui neppure si discuteva che, per eternare una donna (Foscolo), ci volesse un maschio: un Petrarca, un Tasso…

 

In realtà, questo plurisecolare paesaggio di maschi coronati d’alloro che immortalano donne tutte loro e tutte mute, non era il Canone appena fino a un secolo precedente: nell’ancora aristocratico, salottiero e galante Settecento. Un profluvio di ammirate autrici si trova nella Storia della letteratura italiana dell’abate gesuita Girolamo Tiraboschi (1731-1794), dove emergono, tra le altre, Cristina da Pizzano (Christine de Pizan ,1365-1430), Lucrezia Tornabuoni (1427-1482), Ippolita Sforza (1445-1484), Cassandra Fedele (1465-1558), Veronica Gambara (1485-1550), Vittoria Colonna (1490-1547), Gaspara Stampa (1523-1554), ecc.

Scrive Sanguineti: «è vergognoso che si possa conseguire la maturità, anzi la licenza elementare, ignorando (…) Christine de Pizan, scrittrice di respiro europeo – femme italienne per sua stessa definizione -, che nel suo libro più noto, Le Livre de la Cité des Dames, prefigura una società non discriminante»; com’è vergognoso ignorare Isotta Nogarola (1418-1466), Lucrezia Marinella (1571-1633) e Petronilla Paolini Massimi (1663-1726), dal cui meraviglioso sonetto Sdegna Clorinda ai femminili uffici, riportiamo, per congedarci vergognosi, le terzine che tutto riassumono:

 

Mente capace d’ogni nobil cura ha il nostro sesso: or qual potente inganno dall’imprese d’onor l’alme ne fura? So ben che i fati a noi guerra non fanno, né i suoi doni contende a noi natura: sol del nostro valor l’uomo è tiranno.

 

P.S.: La questione del Canone e della letteratura femminile è affrontata da Sanguineti nei primi due scritti del suo libro: seguono saggi, in particolare su Dante, di non minore acume. In uno in particolare, Dante poeta del proletariato, Federico Sanguineti pare fare i conti con il celebre Dante reazionario del padre Edoardo, sia pur senza mai nominarlo. Federico Sanguineti ha curato una importante edizione critica della Commedia dantesca (Edizioni del Galluzzo, 2001), che a noi ha fatto l’impressione di un Vespro della Beata Vergine di Monteverdi dopo le ripuliture filologiche di un Gardiner o di un Saval.