La musica silenziosa di Sergio Altieri

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Intervista al pittore di Capriva del Friuli

di Walter Chiereghin

 

… avvicinarsi di più alle cose che sono per trasformarle

in quella musica silenziosa che è la pittura

 

(Sergio Altieri, L’incauta semplificazione,

Campanotto, Pasian di Prato, 2000, p.42)

 

 

è dall’aprile dello scorso anno che avrei desiderato intervistare Sergio Altieri, anzi, per la verità, da quattro anni prima, quando avevo avuto modo di incontrare la sua opera a Cormons, in una notevole personale allestita al Museo del Territorio nel 2014. Se finora non l’avevo fatto è solo per una mia inopinata tardiva timidezza, una sorta di ritegno che m’impediva di importunare l’anziano artista. Vinta ogni remora, sono qua alle prime ore del mattino, nel suo studio spartanamente organizzato in due stanze al piano terra di una pertinenza della casa di Capriva del Friuli, dove vive e lavora. Tutto l’arredo della stanza in cui ci troviamo è costituito da due poltroncine, un altro sgabello, un piccolo tavolo, un altro più grande che funge anche da tavolozza contornata dai vasi di colore, una piccola libreria metallica, con decine e decine di CD e un piccolo apparecchio per ascoltare la musica, e infine, accanto alla finestra, un dipinto ancora non finito su un grande cavalletto, completamente incrostato di gocce e colature di colore, presenti pure sul pavimento e sulle pareti. Dopo le prime battute, un po’ingessate, la conversazione scorre veloce e aperta, ricca di suggestioni e, per me, di informazioni su un piccolo universo di arte, di cultura, di impegno civile, di ricordi che compongono lo straordinario affresco di settant’anni di attività artistica vissuti con discrezione in questo piccolo centro del Collio goriziano.

 

Mi sono permesso di disturbarla col richiederle questa intervista perché mi pareva necessario proporla ai nostri lettori, allineandola ad alcune altre che ho “estorto” a diversi artisti triestini e dell’area isontina. Un’esigenza che si è fatta pressante soprattutto dopo l’antologica dello scorso anno a Palazzo Attems, ma l’idea m’era venuta ancora molto prima, visitando la mostra di Cormons nel 2014…

A Cormons mi avevano invitato perché hanno presentato mostre di tutti i pittori del territorio, e proprio lì, molti anni fa, avevo cominciato il mio percorso, quando avevo lasciato la scuola, il liceo classico che frequentavo a Gorizia, per dedicarmi alla pittura. L’avevo fatto iniziando a frequentare lo studio di Gigi Castellani, dove tra l’altro ho avuto la possibilità di conoscere e di confrontarmi con numerosi altri artisti, tra i quali ricorderei almeno Ignazio Doliach, Piero Pizzul e poi Werther Toffoloni e Piero Palange, che pochi anni dopo costituirono lo Studio TiPi, dedicandosi quindi al design. Inoltre Castellani organizzava delle mostre a Palazzo Aita, nell’ambito cioè della Lega Friulana, che poi divenne Lega Nazionale. Lì ho avuto modo di conoscere Giuseppe Zigaina, Fred Pittino, Guido Tavagnacco, e poi i triestini: Mascherini, Devetta, Perizi, Righi, i Daneo…

Quindi anche Trieste ebbe una parte importante nei suoi esordi?

Direi di sì. Nel 1949, in un momento cioè in cui era ancora incerto come sarebbe poi andata a finire la questione dei confini, mi fu dato di partecipare a un’importante collettiva a Trieste, allestita anche per affermare un’identità culturale e nazionale. Sta di fatto che fu un’occasione espositiva importante, cui parteciparono numerosi artisti, alcuni dei quali già famosi, provenienti da un’area territoriale che arrivava fino a Verona ed oltre. Furono accettate due mie opere, il che per un esordiente era incoraggiante, dato che tra gli altri esposero in quella collettiva Santomaso, De Pisis, Vedova e altri artisti di grande rilievo in quegli anni.

Si è trattato di un bell’inizio: lei non aveva ancora compiuto i vent’anni…

Sì, in effetti… Castellani era molto contento di quella mia partecipazione alla collettiva, e naturalmente lo ero anch’io.

Lei aveva abbandonato il liceo classico, che stava frequentando a Gorizia, per dedicarsi alla pittura, e non precisamente per seguire un regolare corso di studi, liceo artistico e poi l’Accademia… Immagino che i suoi non l’avranno presa bene. O sbaglio?

Non sbaglia affatto. La presero esattamente come può immaginare, ma alla fine si rassegnarono.

In quei suoi primi anni lei esercitava una pittura di carattere espressionista, con i contorni delle figure molto marcati. Un po’ il contrario di quanto ha sviluppato negli anni successivi, fino ad oggi, dove il colore ha un deciso sopravvento sulla linea. Però, subito dopo il periodo del suo esordio, lei è stato per così dire travolto dal neorealismo.

Già, il neorealismo, certo. Si è trattato di un periodo fondamentale, di svolta, che provocò non poche incrinature all’interno del nostro ambiente. Per esempio, Castellani era scettico riguardo all’organizzarci in un gruppo, anche per un suo essere refrattario nei confronti di rigidità e disciplina, mentre invece Zigaina aveva una concezione eroica e militaresca, consonante del resto a quella imperante nel PCI di quegli anni, che era per metà caserma e per metà convento. Per inciso, a quel partito sono stato iscritto per quarant’anni, dal 1950 al ’90, operandovi, tanto come cittadino (sono stato per quindici anni consigliere comunale) che come pittore per motivazioni ideali, in entrambi gli ambiti lavorando – ovviamente senza alcun compenso materiale – assieme ad altre persone, in un rapporto di fattiva collaborazione. Comunque, fin dai primi anni Cinquanta, io fui attratto da quelle nuove modalità, non ero più il ragazzo che si lasciava alle spalle un fallimento scolastico, e per di più avvertivo fortemente il gusto di lavorare assieme, di essere parte di un gruppo… Veda: io mi sento di aver ricevuto da questo mio lavoro molto più di quanto mi meritassi, ma ai tempi del sindacato artisti, un paio di stanzette nel palazzo della CGIL di Udine, avevo la sensazione di lavorare per la comunità; analogamente fu più avanti nel tempo, assieme ai goriziani raccolti nell’APAI (Associazione Provinciale Artisti Isontini), Mocchiutti, Gianandrea, Monai e altri, ma anche a Monfalcone, in quanto si muoveva attorno al cantiere abbiamo lavorato molto, in collaborazione con la FIOM; lì, naturalmente, tutto ruotava attorno a Tranquillo Marangoni, ma eravamo in diversi a darci da fare.

Si è inserito agevolmente in quei gruppi di artisti e di intellettuali?

Direi di sì: ho avuto molto da imparare, ero probabilmente un po’ naif, anche per le mie carenze di preparazione accademica, per insipienza, e per questo sento di dover essere molto riconoscente a quelli e ad altri amici che, nel corso degli anni, mi hanno dato moltissimo.

Devo dire che mi ha sempre molto colpito la singolare affinità espressiva che esisteva all’epoca, poniamo tra lei e Zigaina, ma anche, per dire, quella con Guttuso, con molti altri…

Beh, uscivamo tutti da un’esperienza analoga, c’era stata la guerra, con i suoi orrori, coi bombardamenti, le fucilazioni, le impiccagioni. Le macerie erano ancora lì, si stava producendo il tentativo, lo sforzo della ricostruzione, e poi, nel caso di queste terre, era ancora in noi la voglia di rappresentare una realtà popolare che era ancora perlopiù contadina. Nelle città, a Gorizia e soprattutto a Trieste, la realtà era differente: le due città erano sottoposte a una visibilità nazionale per via della questione dei confini e i contenuti neorealisti venivano guardati con sospetto; ricordo accese discussioni con Perizi. A Trieste l’unico artista che potesse definirsi neorealista era Sabino Coloni: si viveva in un clima politicamente e culturalmente molto diverso.

Lì si viveva un dopoguerra irragionevolmente prolungato, tra contrapposti nazionalismi e anche, spiace dirlo, a causa dell’ambiguità della sinistra, che ha finito per sollevare la destra da responsabilità che invece erano tutte sue, facendo perdurare a lungo quella visione travisata di quant’era successo.

Sicuramente è stato così, e ne abbiamo portato le conseguenze per gli anni che sono seguiti, fino ad oggi, incluso. Anche perché qui da noi c’è stata, incombente, la presenza di una cortina di ferro che è durata per decenni, aggravando ulteriormente divisioni e paure. D’altra parte su questo nostro territorio viviamo una situazione molto complessa e delicata, che inevitabilmente una lettura nazionalista ha difficoltà a porre in chiaro. Cesare Battisti, per esempio, assegnava la valle dell’Isonzo agli Sloveni, pur essendo stato un eroe dell’irredentismo italiano. Anch’io, nel mio cognome, porto una traccia di questa complessità; originariamente la mia famiglia si chiamava Alt – “vecchio” in tedesco – perché era originaria dell’Austria. Mio nonno, ferroviere, era deceduto in un incidente ferroviario, e quindi mio padre, in quanto orfano di un caduto sul lavoro, studiò a spese dello Stato a Vienna. Nonostante ciò, io sono italiano, perché la mia cultura, ed è ciò che conta, è quella di un italiano. Che poi… italiana, certo, ma in essa confluiscono, per esempio, anche Cervantes e Tolstoj, naturalmente. Ieri sera mi sono sentito le trentadue variazioni Goldberg eseguite da Beatrice Rana e anche quella musica mi ha fatto sentire a casa.

Bene, ma lei è qua, adesso, in questo piccolo paese apparentemente isolato. Ho trovato da qualche parte un suo aforisma, secondo il quale lei avrebbe passato metà della sua vita per farsi conoscere e l’altra metà, poi, per nascondersi qui.

Sì, ma non creda che questo sia un eremo solitario: c’è tanta gente, talvolta anche troppa, che passa a trovarmi, a scambiare due parole, a vedere cosa sto combinando su questo cavalletto. Certo, anni addietro, soprattutto a Gorizia e a Trieste, vi era un altro fervore, il concorrere di una pluralità di voci a segnare un ambito culturale ed artistico più vivace, che comunque, almeno in parte, continua a sussistere, anche se rimpiango alcune presenze che non ci sono purtroppo più, come quella di Cesco Macedonio. Devo dire però che mi capita spesso di sentirmi a disagio, anche per certe forme che assumono le avanguardie artistiche, molte “installazioni” che avverto distanti da me. Con qualche eccezione, per esempio il pesce realizzato con materiali di recupero in occasione della Barcolana. Però, per me il centro del mondo rimangono le Gallerie dell’Accademia di Venezia.

Dobbiamo avviarci a una conclusione di questa bella chiacchierata. Parliamo della calcografia: lei non ha un’ingente produzione grafica, o mi sbaglio?

No, non si sbaglia e questa cosa mi fa sentire un po’ in imbarazzo, perché riconosco il valore anche sociale di opere riproducibili in una pluralità di copie. La prima acquaforte l’ho eseguita per iniziativa del PCI, con la stamperia di Santini e Albicocco, prima che i due si separassero; sono seguite, sempre per occasioni che suggerivano l’esecuzione di cartelle di grafiche, altri miei sporadici interventi, acqueforti o preferibilmente litografie, ma sono tecniche che richiedono tempi lunghi e molta pazienza per essere realizzate convenientemente, il che mi ha indotto a trascurare più di quanto avrei voluto la calcografia.

Una domanda un po’ scontata, nel senso che glie l’avranno rivolta tutti quelli che prima di me la hanno intervistata: mi vuol dire qualcosa riguardo alla sua predilezione per i bambini, per i molti dipinti che hanno per protagonisti la Pisana e Carlino, o anche un soggetto che mi ha particolarmente colpito, il Puer Johannes?

Quel dipinto, e gli altri che lo hanno seguito, ha una sua storia, collegata in qualche modo alla morte di un mio amico di qui, un operaio che lavorava al cotonificio. Dovevo andarlo a trovare all’ospedale di Padova dov’era ricoverato, e mentre vi stavo arrivando appresi la notizia della morte di Enrico Berlinguer, che era avvenuta nel medesimo ospedale dov’era ricoverato il mio amico. Arrivai lì mentre arrivava anche Pertini, e può immaginare il trambusto, la tensione anche emotiva per quel tragico evento, del quale parlammo naturalmente col mio amico, anche lui iscritto al partito. Dopo la sua scomparsa, per distrarmi un poco, mi recai ad Aquileia, a visitare il Museo Paleocristiano, che non avevo mai visto e lì m’imbattei in una lapide che recava il nome di questo bambino: Giovanni, morto a quattro anni.

Era dunque una sua riflessione che scaturiva dalla morte, di Berlinguer, del suo amico, di Johannes, ma in un certo senso la superava, la negava proprio con l’immagine di quel bambino, chiara come la vita sul suo sfondo scuro. Capisco di più, ora, la ragione di quella mia commozione davanti al suo quadro.

Ecco, da riflessioni come questa sua, tante volte, mi sento assolto dalle mie malefatte!

 

Mi accompagna alfine al cancello e me ne vado un po’a malincuore, ringraziando del tempo generosamente concessomi, e ben sicuro che di “malefatte” da cui essere assolto Altieri deve averne veramente poche.

 

 

Dida:

 

Fig. 1

Nello studio di Capriva

1917, foto Danilo di Marco

 

 

Fig. 2

Festa popolare in Friuli

1955, olio su tela

Musei Provinciali, Gorizia

 

Fig. 3

Veneziana

1977, tempera su tela

collezione privata

 

Fig. 4

Puer Johannes

2000, tempera su tela

collezione Bruno Mainardis