Il banchetto

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di Giuseppe O. Longo

 

Entrati in un portone uguale a tutti gli altri della città vecchia, avevamo attraversato un cortile, penetrando in un basso edificio di mattoni che nulla lasciava presagire, e scesa una breve scala avevamo cominciato il viaggio allucinante, seguivo il direttore che mi accompagnava o meglio guidava verso il locale sotterraneo dove si sarebbe svolta la cena in mio onore, quando mi aveva parlato di un ristorante singolare non avevo certo immaginato di scendere agli inferi, ma ora procedevamo attraverso un intrico di grotte, un vasto formicaio ramificato ed esteso in misura speleologica, come le caverne abitate dai primitivi, ammassati all’imbocco per paura delle buie profondità, dei pozzi sonori che assorbivano i riverberi dei fuochi e le voci (e i suoni della pietra percossa sulla selce e sull’osso), quelle spelonche oggi esplorate e i loro dintorni da occhiuti accademici in cerca di reperti e di resti (punte di frecce, aghi, sementi e avanzi di cibo, coproliti e pelli e denti (trasformato il tutto in duro minerale dal lungo contatto con la pietra e l’argilla per il lavorio dei lenti processi chimici (e fisici) proposti dalla natura a riassorbire gli avanzi (gli scarti) nei cicli inesausti dell’azoto del carbonio dell’acqua e del fuoco (così in lucido sasso erano stati assai prima tramutati la pelle gli ossi le scaglie dei lucertoloni del triassico giurassico cretaceo, i tonanti dinosauri sannuti (brontosauro e iguanodonte e triceratopo e il tremendo troneggiante re dei re il tirannosauro))) e di scheletri umani spezzati sparpagliati mescolati (cercati, sceverati e ricomposti dalla paziente acribia dei cercatori), contorte dall’artrite le ossa, segnate e ingrossate dalle fratture, piegate per introdurle nelle tombe villanoviane (calati i cadaveri in posizione fetale, genufrontale (incaprettati), vicino un corredo di oggetti rituali, corrosi ormai, ossidati bucati ingruppati, indistinguibili dalla ganga terragna) sui quali scheletri non resta traccia non solo di pelle e di peli e di visceri, ma neppure delle lamentazioni e dei canti e del terrore che forse precedette la morte (mentre i paleoantropologi confrontano le ossa con quelle di altri animali e di uomini e donne d’altre epoche per risalire alla storia congetturale del genere umano), annegata nell’immemore tempo la massa di emozioni commozioni sentimenti riflessi nello specchio concavo della coscienza. Per arrivare al luogo del banchetto scendevamo scale irregolari scavate nel tufo e nell’argilla, stillanti umidità, mosse da nicchie e aggetti e mensoloni, percorrevamo corridoi soffocati, attraversando anditi e camere spoglie, sotto lampadine incassate nelle pareti e protette da reticelle metalliche, che irraggiavano una luce fioca o all’opposto violenta, l’eco era morta, eravamo circondati da un’impenetrabile sordità ai rumori interrotta ogni tanto da una voce attutita, da un suono smorzato di passi lontani, sempre scendendo, poi i locali si erano via via animati, vidi persone sedute ai tavoli o ai banchi di mescita, le pareti scomparivano dietro scaffali e rastrelliere colme di bottiglie, l’aria non aveva più la crudezza gelida, l’umidore dell’inverno, gli stillicidi erano cessati, qua e là rosseggiavano stufe, pareva di avvicinarsi al cuore di una città pulsante di vita e infatti tutte quelle gallerie e cunicoli e sale e passaggi formavano sotto la città che conoscevo un’altra e più misteriosa città, fatta di taverne e osterie, popolata da una folla vociante, giovani per lo più, rumorose e fumose, quelle grotte, sorrette da pilastri di tufo, o meglio scavate nel tufo a grande profondità e su più livelli, come se ai palazzi di sopra rispondessero in modo speculare altri complicati edifici sotterranei, capovolti, abitati da un’umanità diversa, notturna e fantasiosa, che si svegliava e cominciava a vivere quando il popolo diurno, conclusa la propria giornata, tornava alle dimore, inconsapevole di quel labirintico fermento sotto le case, nel sottosuolo che accoglieva le fondamenta tenebrose dei palazzi e delle chiese dell’antica metropoli. Poi cominciò il banchetto.