Fenomenologia del fascista italiano

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Attualità atavica del fascista italiano 0.0

di Francesco Carbone

 

«Nel nostro tempo, in cui i vecchi “proletari”

stanno diventando piccola borghesia (…),

il fascismo troverà in questa nuova

maggioranza il suo uditorio.»

(Umberto Eco, Cinque scritti morali, 1997)

 

 

L’espressione fascista italiano va considerata come un unico concetto espresso con due parole. Tra i due termini, il nucleo essenziale è nell’aggettivo; un eventuale apparente prevalenza del fascista sull’italiano sarà sempre una messa in scena, e solo in situazioni in cui l’italiano non corre pericolo. Ogni fascista italiano, direbbe Flaiano, «tiene famiglia», anche più d’una, malgrado il Concordato con la Chiesa che fece del cattolicesimo la religione di Stato (1929).

Se fascista implica il culto della forza contro i deboli, l’abolizione della democrazia appena dopo che è stata sfruttata per il proprio dominio, nonché il «disprezzo della donna» (Manifesto futurista, 1909) per un virilismo tra camerati su cui la psicanalisi ha detto tutto da tempo; se insomma fascista rimanda a un maschio tutto d’un pezzo che si spezza ma non si piega, e che si affida marmoreo a un duce che ha sempre ragione; l’Italiano, che sempre cova sotto questa scorza di Rodomonte, pratica l’etica del Dipende, ha cioè in sé un’inscalfibile riserva mentale rispetto a ogni sua adesione: oculata doppiezza pronta a farsi valere alla prima seria difficoltà. Questa capacità di presentire le tempeste e regolarsi di conseguenza, già per Leopardi faceva degli Italiani, «nella pratica», il popolo più filosofo del mondo: dove filosofo indica una persona nella cui mente «non hanno luogo le illusioni»:, a favore «di un pieno e continuo cinismo d’animo» (Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani, 1824).

Certo, esistono fior di Italiani che non rientrano nel relativismo sopra descritto; ma sono pochi: sono eccezioni al senso comune. Tendenzialmente umbratili, fanno il loro dovere anche fino alla morte, ritrovandosi così – se la cosa si venisse a sapere – calunniati dagli italiani del Dipende. Non a caso, questi galantuomini vengono spesso definiti, anche da loro stessi, Anti-Italiani.

Un nome per tutti: l’avvocato Giorgio Ambrosoli (1933-1979), commissario liquidatore della banca del mafioso Michele Sindona, che fu il mandante del suo omicidio; Ambrosoli ebbe dall’italianissimo Giulio Andreotti questo epitaffio: «se l’è andata a cercare». Quest’anno, l’Italia, nelle sedi istituzionali più solenni, ha celebrato in pompa magna il centenario della nascita di Andreotti, non i quarant’anni passati dalla morte di Ambrosoli.

Tornando al discorso generale, non stiamo quindi parlando del fascista minoritario e squadrista di Casa Pound, Forza Nuova, e simili, quanto di un tipo umano più comune, meno appariscente, ma molto più strategico: senza di lui nessun regime fascista sarebbe mai stato, né sarebbe più possibile. Certo non fu con le camicie nere della «marcia» del 1922 che il non sciocco Mussolini dominò per vent’anni l’Italia.

Il fascista italiano sarà pronto alla camicia nera, ai cortei e ai proclami, solo fin quando non correrà alcun rischio, solo fin quando essere fascista lo farà sentire dalla parte dei più forti. L’eroismo del fascista italiano è sempre stato quello dei dieci contro uno, e, in grande, della guerra arbitraria e d’aggressione nei confronti di Paesi scelti con cura tra quelli immaginati estremamente più deboli: Etiopia, Albania, Grecia.

Il fascista italiano, anche il più fanatico, proprio perché italiano, non si immolerà mai per la «causa». Quando il rischio è nullo, amerà proclamare «Se indietreggio uccidetemi» (Mussolini, 1935), proprio perché non costa nulla, e perché non c’è italiano che non riconosca d’istinto il Dipende sempre sottinteso alla spacconata.

Questa impossibilità di martirio è evidente già nel caso di Mussolini, il quale durante la «marcia» su Roma rimase a Milano, pronto fuggire in Svizzera se lo Stato italiano avesse fatto il suo dovere di Stato, trattando come si meritavano i trentamila fascisti scampagnanti verso la capitale.

Molto più dell’atto, esaltato anche genialmente dalla filosofia di Gentile, contò subito la messa in scena dell’atto: arrivato a Roma il 30 ottobre 1922, due giorni dopo la «marcia», Mussolini scese all’Hotel Savoia, si cambiò, si bardò di fez e camicia nera e andò al Quirinale dal re, al cui cospetto esordì: «Maestà, perdoni la mia tenuta, vengo dai campi di battaglia». Tutto questo fu molto fascista e molto italiano. Come molto italiano fu quel re pernicioso disposto, pur di avvallare un colpo di Stato, a fingere di credergli.

Non meno italiano fu Mussolini nel momento dell’arresto: quando si travestì da sottufficiale tedesco, fingendo di dormire in fondo a un camion di soldati della Wehrmacht, tenendosi stretta una borsa di documenti da offrire agli anglo-americani in cambio della vita. L’ovvio confronto con il suicidio di Hitler ci chiarisce una differenza essenziale rispetto al modello antropologico del fraterno regime nazista: un fascista italiano non si suiciderà mai. Il che fa tornare in mente quell’aneddoto raccontato da Stendhal sui tre ufficiali, un tedesco, un francese e un italiano: avvertiti del rischio di un cecchino, il primo resta impassibile al suo posto, il secondo fa teatralmente un passo avanti; l’italiano, chinandosi, dice riconoscente Grazie per l’avviso (genius loci che rendeva a Stendhal più simpatici gli italiani; e a noi Stendhal più simpatico di Jünger).

 

Nel fascista italiano, essendo fascista la maschera e italiana la sostanza, prevarrà sempre   l’attitudine psicologica e politica che Manzoni ci mostrò nel «sistema particolare» di don Abbondio (I promessi sposi, cap. I). Alla prova dei fatti, sarà sempre il donabbondismo a prevalere nel carattere ambivalente del fascista: vedi ancora Mussolini, il quale, pochi mesi prima della guerra, aveva legato l’Italia al terzo Reich con un incondizionato – a parole – Patto d’Acciaio (22 maggio 1939). Quando però Hitler invase la Polonia (1° settembre 1939) e cominciò davvero la guerra, lo sventurato «duce» non rispose: lì molto italianamente indietreggiò, e inventò la non belligeranza: che fu il modo fascista di modulare la celebre «neutralità disarmata» di don Abbondio: neutralità, in quel caso, in quanto ancora non armata abbastanza, come non lo sarebbe stata mai: malgrado anni di parate, giuramenti, baionette contate a milioni, sabati a far marciare la gioventù, ecc.

Né Hitler, pazzo ma non scemo, si stupì: già durante l’infame, per Francia e Inghilterra, Patto di Monaco (1938), Mussolini aveva mostrato plasticamente – basta un’occhiata ai filmati – quel modo donabbondiesco che ci è così naturale: «Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte» (I promessi sposi, come tutte le citazioni, dal cap. I).

Vivendo di messinscena, virtualità e fake news, il fascista italiano detesta i fatti, aborre l’evidenza, crede fino all’ultimo che un qualcosa verrà da sé a salvarlo dall’inevitabile. Il fascista è così vittima della sua pseudologia fantastica (patologia di chi crede alle proprie millanterie): nel 1940, Mussolini, autonominatosi capo supremo dell’esercito, di fronte al fatto che l’esercito non era pronto per alcuna guerra, ma soprattutto ammaliato dal “fatto” che i tedeschi avevano già sconfitto la Francia da soli, avrebbe detto: «Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo della pace». Morti da messinscena: abbastanza da permettergli una parte in commedia, ma non tanti da turbare la massa già ansiosa dei fascisti italiani che, come le cose si misero male, e cioè presto, si fecero sempre meno osannanti. Visto che quel «tavolo» non ci fu, Mussolini smise almeno di affacciarsi dal famigerato balcone.

Il fascista italiano sarà maresciallo Graziani con gli Etiopi e generale Badoglio con gli Anglo-americani. Sarà sempre pronto, nella disgrazia, a un 25 luglio; nel successo, a essere crudele verso i più deboli; lì potrà «cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto» (ancora Manzoni).

Un notevole grido a torto fu il «Vincere e vinceremo» urlato il 10 giugno del 1940, quando appunto era chiaro che la Francia era stata ridotta dai nazisti a un semicadavere pronto per il colpo di grazia: colpo che l’Italia fascista s’illudeva di poterle assestare. Anche qui agisce un genius loci più antico: in Addio alle armi (1929) Ernest Hemingway narrò, dopo il disastro di Caporetto, della «freddezza e il controllo di sé degli italiani che sparano senza che nessuno spari a loro»: situazione, per un fascista, ideale.

Così oggi il fascista italiano farà «il fantastico» con clochards, mostre scolastiche sulle leggi razziali, maratoneti africani, schiavi raccoglitori di pomodori nelle mani della ‘ndrangheta, spacciatori al minuto solo se di colore, siriani in fuga dalla guerra, intellettuali minoritari, omosessuali, zingari, donne, ecc. In compenso, non avrà nulla da contestare alla ‘ndrangheta padrona dello spaccio di droga e pomodori, e in genere a tutti i poteri forti, nei confronti dei quali si presenterà sempre da parvenu che anela l’ammissione nei giri che contano.

Non avendo principi ma un Ego – enclave della psiche per sua natura precaria e cangiante -, il fascista italiano possiede e coltiva memorie solo mitiche: è un povero che vive in un suo sogno di maschi adoranti un super-maschio dal fallo a obelisco. È una fascinazione che può esercitarsi anche ferocemente su un popolo intero fin quando non accade nulla di serio. Lì crolla come un castello di carte: il fascismo è sempre un apostrofo nero tra le parole M’arrendo.

Sgusciante come un’anguilla nel sapone, saprà infatti ritrovare al volo il freudiano principio di realtà nel momento del disastro, anticipando qualunque processo di Norimberga: non si farebbe a tempo a istituire quel tribunale, che il fascista italiano si sarà già rischierato dalla parte dei vincitori: i suoi nuovi Alleati. Per accontentare i quali s’illude, non sempre a torto, che potrebbe bastare un rapido cambio di felpa.