I MARI DI TRIESTE

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Dieci autori narrano il “loro” mare

Cristina Benussi

 

Forse, come diceva Anna Maria Ortese a proposito di Napoli, il mare non bagna Trieste, o non la bagna più. O forse si è nascosto nella dimensione più intima della memoria. Chi ne parla, allora, non può che mettere se stesso al centro di un racconto scritto per un lettore cui vuol far sapere cosa significhi per lui il mare. Mare che, come sottolinea la curatrice Federica Manzon, è soprattutto quello dell’infanzia, e che dunque si chiama alla triestina “bagno”, luogo familiare e concluso, affettivamente e fisicamente sicuro. Ogni scrittore ha dunque un suo “bagno” del cuore, specchio, direbbe Lacan, di un sé in formazione. Mauro Covacich ricorda la pineta di Barcola, oasi domenicale di felicità familiare, meta di un viaggio urbano la cui incognita più inquietante era il parcheggio, locus amoenus di una piccola borghesia soddisfatta del benessere economico e familiare di quei Settanta ancora protesi verso un futuro amicale. Gillo Dorfles compie una panoramica socio-estetica dei vari punti balneabili della città, durante e dopo la sua infanzia. Senza abbandoni ad emozioni private, uno dei migliori rappresentanti della buona borghesia cittadina distingue tra le varie esperienze natatorie che ha potuto fare alla Diga, a Grignano, a Sistiana, a Punta Sottile, qualche volta alla Lanterna la cui divisione trova grottesca, raramente a Barcola, il cui ambiente trova piuttosto volgare. Ma è al Savoia – Ausonia, il suo bagno da piccolo e da adulto ormai professionalmente formato che la memoria si sofferma più a lungo, trovando il tempo di citare infine gli amici con cui passava ore a discutere: Leonor Fini, Bobi Bazlen, Leo Castelli, ai quali poi, tornati in città, e pronti per andare a giocare a bocce, si aggiungeva Italo Svevo. Cominciamo a capire perché non c’è altro rapporto se non edonistico – sportivo tra la città un tempo porto imperiale e il suo mare, non più sinonimo di avventura o scambio, ma di vita all’aria aperta. Il mare che bagna Trieste è diventato in realtà un lago salato, addomesticato e familiare sui cui bordi incontrare amici, ritrovarsi o dirsi addio. Claudio Grisancich recupera il punto di vista di un bambino in tempo di guerra, che riesce a raggiungere il luogo osservato dall’alto del suo abbaino dopo un affascinante tragitto scandito dal ritmo monotono del motore del motoscafo che lo porta alla Diga, simbolo dell’avventura e dell’abbraccio, in acqua, con la madre. La gioia per il ritorno a casa del padre avrà come sottofondo musicale proprio quei rumori e quello scenario sul quale ha costruito il senso del suo Petit poème familial. Qualche brivido ce lo dà Boris Pahor che, oltre alla Lanterna e alla Diga, ci parla di un mare dove potevano capitare squali, a caccia del pesce cui miravano anche i pescatori sloveni scesi dal Carso verso Barcola e Grignano. La pesca per loro divenne più magra quando gli istriani, gente di mare, si stabilirono al Villaggio del pescatore. Si tratta dunque un mare che nasconde preziose risorse alimentari, e precise identità culturali: se nel dopoguerra alla Diga andavano gli sloveni triestini che avevano la mensa alla Casa del Lavoratore portuale, al Cedas andavano i pescatori di Contovello e quelli che abitavano vicino al teatro sloveno. Pino Roveredo si immerge nell’atmosfera festosa e popolare della Lanterna degli anni Sessanta, quando pagare il biglietto d’ingresso all’Ausonia era cosa da ricchi. Immobile, come nel ricordo l’ha ritrovata ora, simbolo di una Trieste che non parte. Pietro Spirito ricorda invece il Bagno Militare, luogo di formazione, di iniziazione sentimentale e dei suoi primi disincanti. Veit Heinichen, giunto a Trieste da adulto, non ha memorie d’infanzia legate al mare e, posizionatosi da Sticco, oltre ad ammirare il panorama verso i monti e la città, ascolta divertito i racconti delle signore che, ignare d’essere oggetto d’attenzione lessicale, parlano in un dialetto ormai in disuso, seppur veicolo di un’apertura mentale sorprendentemente al passo coi tempi, tipica della mentalità triestina. Alessandro Mezzena Lona e Mary Barbara Tolusso offrono due intriganti racconti, antitetici quanto a tecnica narrativa e a focalizzazione “marina”, ambientati uno all’Ausonia, luogo di tintarella e di incontri cultural-editoriali, l’altro in Costa dei Barbari, mitico ritrovo di nudisti, particolarmente adatto a scatenare ironiche fantasie trasgressive. È Claudio Magris a chiedersi come davvero sia possibile Parlare di mare? Ed è qui che troviamo esemplificate le simbologie che nella storia della cultura occidentale il mare ha avuto, e che ha assunto nell’iconografia cittadina. Ovviamente il suo personale ricordo si allarga, nelle diverse fasi della sua vita, alle due sponde dell’Adriatico, recuperando valenze multiculturali legate anche al più domestico rito del “bagno”, che pratica da maggio a ottobre. Ma distingue il non tempo del mare, come s’intitola un libro di Marin, dal dannato tempo del lavoro. Trieste, dice, ha avuto due anime, quella marinara aperta e avventurosa e quella incappottata nelle sue sicurezze, perfettamente simbolizzate dalle Assicurazioni Generali, messe però in crisi dalla grande cultura mitteleuropea.

Se la ricostruzione della memoria è orientata dal presente, da quanto ci dice questo ameno album sul mare, tra l’altro illustrato dalle belle fotografie di Diego Artioli, sembra che quelle due anime si siano ritirate per lasciare il posto ad un’altra. Quale essa sia sarà il lettore a scoprirlo.

 

 

I mari di Trieste, a cura di Federica Manzon, Fotografie di Diego Artioli, Bompiani, Milano 2015, pp. 120, Euro 17