Il cinema sociale di Cannes 72

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di Alan Viezzoli

 

La 72ª edizione del Festival del Cinema di Cannes che si è svolta dal 14 al 25 maggio 2019 è stata senza dubbio la migliore da quando ho occasione di frequentare la manifestazione, quindi da sei anni. In realtà non è così azzardato dire che è la miglior edizione di un qualunque Festival internazionale a cui ho partecipato. Dei ventuno titoli in concorso, infatti, solo due o al massimo tre non si sono dimostrati all’altezza.

In Festival di tale portata è raro che i selezionatori costruiscano scientemente una linea tematica che unisca i film del concorso; ciò nonostante di solito un filo rosso è sempre possibile trovarlo, segno che i registi di oggi hanno l’urgenza di raccontare qualcosa che loro vedono come un problema del quotidiano. Quest’anno a Cannes forse due sono state le “macro-aree” tematiche che si sono alternate nei film passati in competizione. La prima è quella del Cinema che parla di sé stesso mentre la seconda ricalca un po’ quanto detto per la Berlinale 2019, ovvero uno sguardo sui problemi civili. Ne è prova proprio il film che ha vinto, Parasite, del regista sudcoreano Bong Joon-ho. In esso, infatti, una famiglia estremamente povera composta da quattro persone – padre, madre e due figli ventenni – trova il modo di farsi assumere da una famiglia agiata e sprovveduta per vivere alle spalle della loro ricchezza. Il film è una satira feroce alla società sudcoreana (ma in altri Paesi le cose non cambierebbero molto) condotta usando in modo molto efficace una commistione di generi, iniziando come una commedia nera e finendo in zone tra il thriller e l’horror. Una Palma d’oro assolutamente meritata.

I problemi della società contemporanea, però, emergono anche in pellicole come Sorry We Missed You di Ken Loach o Le jeune Ahmed dei fratelli Dardenne. Nella prima il regista ottantatreenne ci mostra i problemi del lavoro contemporaneo, sempre più flessibile, in cui girano sempre meno soldi ma dove al dipendente viene chiesto sempre maggiore impegno. Nella seconda (premiata con la Palma per la miglior regia) i due cineasti seguono un ragazzino tredicenne islamico di nazionalità belga il quale viene traviato da un imam fondamentalista e prova a uccidere la sua insegnante colpevole, a detta del ragazzo, di voler distruggere la cultura musulmana.

Questo “filo rosso” del sociale si annoda molto bene con i premi assegnati dalla giuria presieduta dal regista Alejandro González Iñárritu. Infatti il Grand Prix è andato ad Atlantique di Mati Diop, film di una regista senegalese che racconta i problemi dello sfruttamento del lavoro e delle migrazioni dall’Africa all’Europa attraverso il Mediterraneo, però dal punto di vista di chi rimane in patria. L’idea vincente della regista è stata quella di usare la figura dello zombie ma separandosi dall’idea Romeriana del mostro – cosa che, invece, non è riuscito a fare Jim Jarmusch con il film d’apertura del Festival, I morti non muoiono, anch’esso rivolto in qualche modo al sociale ma con un modo di concepire la creatura che ormai è troppo vecchio e abusato. Mati Diop, al contrario, ha ripreso la versione haitiana dello zombie e, con un trucco banalissimo come quello di far indossare agli attori delle lenti a contatto bianche, ha reso in modo creativo il messaggio sociale che voleva comunicare.

Anche i due film vincitori ex-æquo del Premio della giuria, Les Misérables di Ladj Ly e Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles sviscerano problemi sociali – il primo quelli di una banlieue parigina difficile da gestire; il secondo quelli di un Brasile che è governato da un presidente militarista che regala le risorse della propria terra a Europei e Statunitensi.

Purtroppo nessun premio per Il traditore di Marco Bellocchio, unico italiano in concorso, che ugualmente ha realizzato un film magnifico in cui parla della Mafia, della famiglia e dell’onore in una maniera che ci permette di fare i conti con il nostro passato e – perché no? – ci consente di pensare al nostro futuro.