Immagini di volti e di figure

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quando l’artista ci restituisce un ritratto, ci restituisce non solo e non tanto la nostra identità ma la propria opera artistica, la sua visione delle cose

di Patrizia Rigoni

 

Dal 15 di dicembre, e prolungata fino a maggio, si è tenuta al Museo Alinari del Castello di San Giusto, una mostra dal titolo ‘Trieste – i fotografi oggi’, organizzata dalla Fondazione Fratelli Alinari e curata Italo Zannier ed Emauela Sesti.

Per dieci volte, da febbraio a maggio, il sabato mattina, Annamaria Castellan, presidente dell’Associazione Acquamarina e fondatrice di “Fotografia Zero Pixel”, ha organizzato, in collaborazione con Emanuela Sesti, sei incontri e quattro tavole rotonde – presentazioni e conversazioni con gli artisti – sui temi – in ordine di calendario – del paesaggio architettonico, del ritratto, della fotografia stenopeica e della fotografia di moda.

Posso approfondire qui il tema del ritratto che mi ha visto moderatore della tavola rotonda alla presenza di Alice Zen, Fabio Rinaldi, Lorella Klun e la stessa Annamaria Castellan.

Tutti e quattro questi artisti sono accomunati dalla passione al ritratto, ma se Castellan lavora prevalentemente sugli sguardi in bianco e nero e sull’attimo fuggente, Klun lavora mettendo in posa il suo modello, Zen preferisce lavorare con le persone dentro i loro spazi intimi, Rinaldi interpreta il ritratto come lunga conclusione di un rapporto col soggetto che ha scelto di ritrarre. Molto diversi i punti di vista, diverse le realizzazioni. Tutte però accomunate da quell’antica idea di andare a ‘cercare’ qualcosa, forse quell’invisibilità di cui parlava Leonardo.

Parlare di ritratto significa infatti in ogni modo lavorare sull’identità: sguardo, memoria, tempo, soggetto, composizione, persino aura. Alla domanda diretta agli artisti sulla definizione personale della parola ritratto già ci si trovava di fronte a un universo molto sfaccettato, non solo espressivo, ma anche esistenziale, e naturalmente tecnico. Perché ogni uomo e ogni donna hanno una faccia, lo sappiamo, ma non è detto che la faccia possa esprimere tutto. Sappiamo anche che parola vicinissima alla parola volto è la parola maschera. Perché noi siamo soggetti/persone individuali, ma siamo anche soggetti pubblici, sociali – e questo discorso della maschera, tanto più nella nostra cultura occidentale, assume un’importanza rilevante.

Non solo, ma ciascun artista ‘vede’ a modo suo: allora fermare l’identità nel ritratto è un’operazione quanto mai personale: quando l’artista ci restituisce un ritratto, ci restituisce non solo e non tanto la nostra identità ma la propria opera artistica, la sua visione delle cose, in poche parole il suo intervento che ferma nel tempo e per sempre quell’immagine di noi.

Scriveva Leonardo: Farai le figure in tale atto il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua laude non sarà lodabile. Lo sguardo artistico comincia ad addentrarsi non solo in ciò che era fuori di noi, come nel Quattrocento, ma in ciò che non si vede.

L’inizio dell’arte moderna, dal Cinquecento in poi, coincide allora con il desiderio di indagare non più solo ciò che è fuori di noi, ma ciò che è invisibile, insomma quel mistero che siamo. Quel tutto di noi che è umano, ma difficile ad essere compreso, quell’enigma che nel secolo scorso abbiamo chiamato inconscio, e che in qualche modo ci ha aperto la strada della Psicologia.

L’artista che decide di costruire un ritratto non può fare a meno di chiedersi che cosa va cercando. Ancora di più oggi, dove il tema dell’identità è così fragile, perché ai tempi di Face-book (il Libro delle Facce) i nostri ritratti sono di tutti, pubblici e atemporali, truccati manipolati e duplicati all’infinito, congelati in un tempo che non è più.

Non sappiamo più bene che cosa siano intimamente, non sappiamo più se nel ritratto è davvero nostra, la faccia, né se esiste ancora uno spirito creativo del volto, quella condizione di assoluta unicità che ci fa diversi gli uni dagli altri.

Forse grazie ai lavori di questi appassionati fotografi possiamo aggiungere timide risposte a queste grandi domande; forse, affacciati ai loro ritratti, possiamo specchiare il nostro smarrimento, e trovare almeno un perché al significato profondo della fotografia, che immortala per noi, come un dono del momento, la coscienza di esistere.