La Trieste vittoriana di Elisabetta d’Erme

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di Luisella Pacco

 

Se in una domenica dello scorso luglio, a qualcuno di voi fosse capitato di vedere una donna che si introduceva nel British Cemetery triestino (il cui ingresso principale era chiuso) scavalcando, in modo rispettoso e tuttavia un po’ casual, il muretto che lo separa dal cimitero militare, ecco – lo confesso alle autorità competenti – si trattava di me.

Avevo necessità ed urgenza, culturale e sentimentale, di andare a rendere omaggio alla tomba di Charles James Lever.

Il motivo è presto detto.

Col cuore dolcemente gonfio di nostalgia – una nostalgia impossibile, poiché il νόστος (ritorno) mi è fatalmente vietato: la città che rimpiango è lontana nel tempo e non nello spazio -, stavo leggendo Trieste vittoriana di Elisabetta d’Erme. Anzi, me lo stavo proprio assaporando di gusto, e alle parole “Lever (…) riposa nel cimitero anglicano di Trieste, assieme a Kate Baker, in un’imponente tomba a forma di piramide”, non avevo saputo trattenermi.

Per me, già abbastanza attratta da queste cose (non concepisco di visitare una città senza andare a conoscerne anche i cimiteri principali), quella frase era più che sufficiente per farmi andare di corsa a vedere con i miei occhi la suddetta sepoltura.

D’altronde mi ero commossa alle lacrime leggendo dell’ultima sera di vita del console Lever…

E accanto a lui, mi erano apparsi – fantasmi, eppur caldi e vivi – altri personaggi che la Trieste dell’800 aveva visto passare.

Vittoriana è un aggettivo che spalanca un mondo. L’epoca vittoriana è stata un tempo di favolosi cambiamenti che ancora caratterizzano il nostro modo di vivere e di pensare. Rivoluzione industriale, nuove teorie, evoluzionismo; grandi invenzioni che cambiavano gli spostamenti e la comunicazione, treni, linee ferroviarie, cablaggi attraverso gli oceani, il telegrafo; le rotative, i giornali a un penny, informazione e riviste e romanzi che finalmente raggiungevano anche le famiglie più povere; un’incredibile massa di merci nuove sul mercato…

In questo mondo in fermento, si muovevano viaggiatori curiosi e attenti che arrivavano dovunque, anche qui a Trieste, spesso per andare oltre, verso i Balcani, Istanbul, le Indie… e poi ancora chissà dove…

Nell’Ottocento nasce la moda dei diari di viaggio. Ci restano testimonianze minuziose e smaglianti. Elisabetta d’Erme vi si è immersa con rigore e allo stesso con umana partecipazione.

Trieste vittoriana è una collezione di storie che raccontano gli arrivi e le partenze di studiosi scrittori musicisti diplomatici o semplici viaggiatori che giungono a vario titolo a Trieste.

Sui viaggiatori provenienti dal Regno Unito, esistevano già due libri: Viaggiatori a Trieste di Nicolas Powell e La presenza britannica a Trieste di Kenneth H. Baker e Sergio degli Ivanissevich. Ma il primo è del 1977 e il secondo del 2004.

Elisabetta d’Erme vuole aggiornare lo studio e allo stesso tempo approfondirlo, con una ricerca meticolosa e paziente.

Nata a Roma, Elisabetta è vissuta in Germania e dal 1993 vive e lavora a Trieste. Giornalista e studiosa indipendente, è stata a lungo collaboratrice del Manifesto. Scrive per le pagine culturali del Piccolo e sulla rivista L’indice dei libri del mese. Dal 2013 è presidente dell’Associazione Triestina Amici della Lirica “Giulio Viozzi”.

Grazie al suo acuto interesse per la ricerca d’archivio ma anche alla capacità di entrare in empatia con le personalità di cui racconta, d’Erme ci regala un libro dettagliato e seducente, con scene davvero intriganti e vivaci, impossibili da dimenticare.

Il sottotitolo del libro è Ritratti, e infatti così è. Una serie di ritratti precisi e sensibili, appassionati e appassionanti. Ritratti singoli che ne compongono uno più ampio e avvincente, quello della Trieste di quell’epoca.

Basti guardare la deliziosa immagine, che apre il libro, di una piazza Grande (poi piazza Unità) di fine ‘800, col rigoglioso giardino nel centro – dove ora c’è l’abbacinante nulla – e le damigelle in abito lungo e ombrellino da sole, per iniziare ad immaginare ciò che era.

Il libro, prima di dedicarsi alle figure più importanti (Charles James Lever, Richard Francis Burton e Michael William Balfe) presenta una brillante carrellata di figure “minori” (non per minore importanza di questi viaggiatori ma semplicemente perché la loro vita si è intersecata con Trieste per più breve tempo).

E così scopriamo l’archeologo John Gardner Wilkinson autore di Dalmatia and Montenegro, divenuta un’opera di culto che resterà per oltre un secolo il testo di riferimento per chi voleva conoscere quelle terre.

E poi ecco lo sguardo del diplomatico Andrew Archibald Paton, console inglese a Ragusa e a Cattaro dal 1862 al 1874, e che arrivando a Trieste scriverà:

«Il viaggiatore non sente più d’essere in un’atmosfera provinciale, ma in uno dei grandi centri dell’azione politica e delle transazioni commerciali. […] Di tutti i porti che ho visitato, quello di Trieste è il più pulito. […] Fra le nuove città europee sono poche quelle che possono competere con Trieste per la solidità e il comfort delle case private. […] Fatta eccezione di un cadente resto di un arco d’epoca romana sito nella parte vecchia della città, Trieste ha poco da offrire al visitatore in campo antiquario o artistico, ma quello che colpisce è la sua vivacità, in particolare dopo aver visitato le cittadine dell’Adriatico. A Ragusa abbiamo visto al lavoro il tempo, ma a Trieste vediamo la gioventù, la speranza, il vigore, e un destino ancor tutto da vivere.”

Ed ecco il reverendo John Mason Neale. Trieste Istria e Dalmazia non erano certo terre da catechizzare, tuttavia attirarono l’attenzione di questo reverendo coltissimo (conosceva una ventina di lingue) che descrisse tutte le chiese che trovò sul suo cammino da Trieste a Cettigne.

Abbiamo pure lo sguardo femminile dell’aristocratica Emily Anne Smythe (1826-1887) moglie dell’VIII visconte di Strangford, che come autrice di letteratura di viaggio è spigliata, eccezionalmente informata e di gradevole lettura.

E ancora, lo storico Edward Augustus Freeman, l’architetto Thomas Graham Jackson, il militare James Creagh…

Ma è attorno a tre figure più importanti che il libro di Elisabetta d’Erme diviene più vivido e a tratti toccante.

Charles James Lever (1806-1872), ad esempio, l’uomo sulla cui tomba sono andata in visita la scorsa estate.

Scrittore prolificissimo, all’epoca famoso quasi quanto Dickens, incredibilmente mai tradotto in Italia e oggi dimenticato anche in patria. Tranne che per il romanzo Lord Kilgobbin, le ultime edizioni inglesi dei suoi libri risalgono ai primi del Novecento e sono reperibili solo sul mercato antiquario.

Nato a Dublino da una famiglia della media borghesia protestante, Lever concluse la sua movimentatissima vita a Trieste come console di Sua Maestà Britannica.

Inizialmente non prova amore per la città, che anzi gli risveglia i sentimenti più cupi e funesti. Ma con l’andare del tempo, si ricrede e ammette di pensare con piacere all’indisturbata quiete di Trieste. È proprio nel giardino di Villa Gasteiger che scrive il suo più grande, già citato, romanzo.

Nel 1870 perde l’amatissima moglie Kate Baker che viene sepolta nel cimitero anglicano.

Elisabetta d’Erme ci descrive con delicatezza l’ultima sera di vita del console, nel maggio del 1872, grazie alla testimonianza lasciata da Mrs Porter, figlia dell’amico Blackwood che quella sera è in visita con la famiglia presso Lever.

«Sotto gli alberi, la banda oltre la strada suonava come sempre. Mr Lever disse di esserne molto orgoglioso. Ordinò il tè e quando fu servito ci sussurrò sorridendo “Questo è Natale”. Tutti fumavano e lui sedeva su una poltrona indossando il suo grande cappello, mia madre e mio padre accanto. Non volle che fossero accese le lampade che usavano di solito in giardino, così era quasi buio quando gli ospiti iniziarono ad andare via alla spicciolata, lasciandolo solo con gli amici che gli avrebbero presto detto addio. […] Su di noi scese una grande tristezza mentre eravamo lì seduti, senza dire molto, ascoltando la banda, che seguitava a suonare per tutto il tempo, dando alla scena un tono irreale, come se stessimo interpretando un dramma.”

Infine arrivò la carrozza. Il trambusto per i mantelli e le sciarpe sembrò sdrammatizzare il momento dei saluti. «Il povero Lever, scherzando e ridendo ci aiutò a vestirci e ci accompagnò alla carrozza», ricorda Mrs Porter, e dopo le ultime strette di mano se ne restò ancora sulla porta, a guardare gli amici andare via.

Charles James Lever si spense il pomeriggio del giorno dopo e riposa infine nel cimitero anglicano di Trieste, dove appunto io non potevo non andare…

L’altra, immensamente suggestiva, figura è quella di Richard Frances Burton (1821 – 1890), che giunge a Trieste nel 1872 come console di Sua Maestà proprio per prender il posto di Lever appena scomparso. Impossibile rendervi conto qui della vita inverosimilmente avventurosa di quest’uomo: esploratore, linguista, arabista, soldato, etnografo, sessuologo, poeta, traduttore, antropologo, archeologo, avventuriero, cercatore d’oro…

Leggendo Trieste vittoriana, ne coglierete molti aspetti, nel bene e nel male fuori dal comune. E odierete, come me, la sua bigotta moglie Isabel Arundell che, alla morte del marito, ne distrusse i documenti e i diari che riteneva scandalosi. Chissà di quante notizie e di quanta ricchezza di descrizioni, quella scellerata donna ci ha privati!

Quando era ormai morto, Isabel convinse un sacerdote (…) a impartirgli comunque l’estrema unzione e, nonostante Richard fosse stato agnostico per rutta la vita, gli organizzò un funerale cattolico. La toccante orazione funebre fu letta dall’amico Attilio Hortis. Il feretro, coperto con la bandiera britannica fu accompagnato alla camera ardente del cimitero anglicano da un incredibile numero di persone, Isabel parla addirittura di centocinquantamila.

Prima del trasloco e la definitiva tumulazione della salma dell’esploratore in Inghilterra, Isabel si rinchiuse per giorni nella Villa Gossleth (in Via Franca) e bruciò molte carte del marito: manoscritti che contenevano un’intera esistenza dedicata agli studi, testi pieni di osservazioni uniche e originali. Isabel bruciò gli scritti che, a suo dire, potevano in qualche modo intaccare la sua reputazione di “uomo puro” o la cui lettura avrebbe potuto risvegliare in qualche innocente “il gusto per l’osceno”, ovvero nella maggior parte dei lettori.

Difficile stabilire oggi cosa sia andato esattamente perduto in quel rogo. Di certo non esiste più traccia di quello che Sir Richard descrisse al suo medico come il capolavoro della sua vita, The Scented Garden. A Trieste in molti videro uscire un intenso fumo nero dal camino della villa dei Burton per un intero giorno e un’intera notte.

La terza esuberante personalità è quella di Michael William Balfe, musicista impresario violinista, baritono dalla voce straordinaria, un successo fulminante, conoscenze ai massimi livelli della cultura musicale e teatrale dell’epoca, un’amicizia (e forse di più) con la più affascinante delle donne, la leggendaria Maria Malibran…

Anche lui a Trieste, a tessere i fili di parte della sua carriera e della sua esistenza.

L’ultimo capitolo, infine, si intitola “L’altro Joyce. Il curioso caso del signor J.J”, che non era, no, il nostro consueto James.

Col mistero nascosto dietro alla lettera J, vi lascio, raccomandandovi – come non potrei? – l’esperienza di questo libro entusiasmante di cui non so scrivere bene perché ne vorrei dire troppo.

Leggetelo, leggetelo e basta.

Immergetevi tutt’interi in una Trieste che si riaccende agli occhi e al cuore. Una città che molti viaggiatori definivano come l’ultimo avamposto, l’ultimo luogo dove poter dormire tra le lenzuola pulite in una locanda confortevole, l’ultimo baluardo di civiltà prima di inoltrarsi giù giù verso i limiti del mondo.

 

Copertina:

 

Elisabetta d’Erme

Trieste vittoriana

Fuorilinea, Monterotondo 2017

  1. 368, euro 20,00