LEVIATHAN

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di Gianfranco Sodomaco

 

 

Leviathan, del regista russo dal nome quasi impronunciabile (Andrej Zvyagintsev), premiato al Festival di Cannes dell’anno scorso per la Migliore Sceneggiatura e candidato dalla Russia all’Oscar quale miglior film straniero, è arrivato nelle sale solo quest’anno. La prima domanda che viene da porsi, dopo aver visto il film, è la seguente: com’è possibile che l’industria cinematografica russa abbia potuto produrre questo film, possibile che la censura (fortissima) russa non se ne sia accorta? Ma, dopo una pausa di riflessione, ecco emergere il sospetto: il signor Putin, dittatore di fatto della repubblica russa, furbo fino alle midolla, ha pensato che quel film, che critica pesantemente l’apparato statale russo, in tutte le sue diramazioni (politica, polizia, giustizia ecc.), poteva ‘fargli gioco’, poteva servirgli, cioè dimostrare che, davanti a quello sfascio, il salvatore della patria era e restava ‘Lui’, solo ‘Lui’. È molto probabile che sia andata così, e questo renderebbe ancora più sconsolante il quadro che il film fa della Russia attuale. Ma, prima di venire alla storia, doverose due parole su un altro film di Zvyagintsev, Il ritorno, che ha vinto a Venezia 2003 il Leone d’Oro, per vedere se c’è qualche affinità, qualche continuità, tra le due opere. Il ritorno racconta la storia di due fratelli adolescenti che, in assenza del padre, giocano a competere tra di loro per vedere chi è il più forte, chi è meno codardo, meglio, tipico, chi è più grande, più adulto. Fino a che, inaspettatamente, arriva il padre che, come primo atto, ordina ai due ragazzi di bere assieme a lui il vino, così come fanno tutti i ‘grandi’. È finito il tempo dei giochi, ora c’è un solo adulto ed è il padre, il padre-padrone. Leviathan ‘parente’ Il ritorno? Vediamo.

È noto che il leviatano è un mostro di origine biblica e che il filosofo inglese Thomas Hobbes lo usò per farne il simbolo del potere statale, dello Stato. Ebbene, lo Stato è il vero protagonista del film, prima ancora del suo protagonista all’apparenza, Kolia. Kolia vive in un villaggio sulla costa del Mar di Barents (Mar Glaciale Artico). Ha una giovane, bella e silenziosa moglie, e un figlio nato da nozze precedenti, una casa e un garage dove ripara le auto. Il problema di Kolia è che quella casa, a ridosso del mare, fa gola a Vadim, il sindaco corrotto del villaggio, che vuole comprarla per pochi rubli assieme al garage e farci sopra degli investimenti. La cosa va avanti da tempo e Kolia, che è un tipo umorale, sanguigno e violento, riesce a ragionare e fa arrivare da Mosca il suo vecchio compagno d’armi, Dimitri, che adesso fa l’avvocato. Poco valgono, però, le leggi e il diritto contro una burocrazia corrotta che non esita a ricorrere alle minacce e alla violenza: Kolia pagherà su tutta la linea, subirà l’esproprio della casa, il tradimento della moglie che, vittima più di tutti per quella situazione che ha solamente ereditato, non troverà di meglio che rispondere alle attenzioni del cognato per poi suicidarsi, invasa dal senso di colpa, in quel mare freddo che circonda una terra già raggelata e raggelante. Non è finita: la polizia, corrotta come il sindaco e in combutta con lui, dopo avere trovato il cadavere della donna sulla spiaggia, trarrà immediatamente le sue interessate conclusioni: la donna è sta uccisa da Kolia dopo che, con l’aiuto del figlio, ha scoperto il tradimento della moglie. Kolia finirà in prigione e il fratello/avvocato tornerà/scapperà a Mosca capendo che restare in quel posto sarebbe soltanto confrontarsi con un pericolo continuo.

Il film si chiude con le stesse immagini ‘naturalistiche’ che il regista utilizza per aprirlo: quelle di una spiaggia dove, chissà da quando, ‘riposa’ lo scheletro di una balena che ha tutte le sembianze di un mostro preistorico. Evidente l’allusione del Nostro così come evidente il significato delle ultime parole del film: quelle del ‘pope’, del vescovo ortodosso (che abbiamo visto complice del sindaco durante tutta quella storia), che commentando il funerale della povera donna non ha altro da dire se non lamentarsi della poca fede degli uomini, dunque del silenzio di Dio. L’uomo non è neanche sfiorato dal pensiero che sarebbe necessario, in quel frangente, di richiamare tutti, in particolare chi ricopre ruoli di responsabilità civile e politica, a una riflessione morale. No, e tutto ricade nel silenzio gelido del Baltico.

Durante il film si vede, ben inquadrato, nell’ufficio del sindaco, il ritratto di Putin: non è affatto un caso, e lo spettatore avveduto comprende che anche quella è una allusione, certamente la più importante. Una nota finale, apparentemente marginale: tutti i personaggi del film, dall’inizio alla fine, si fanno di vodka, e non è soltanto la risposta ad un problema climatico, è anche la reazione a una vaga disperazione che circola, in forme diverse, in tutti quegli ambienti.