Il fotografo di Carlo Levi

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Incontro con Mario Carbone, fotografo, regista, direttore della fotografia che ha assistito Levi nella creazione del grande dipinto conservato a Matera

di Nicola Coccia

 

Mario Carbone, uno dei più importanti fotografi italiani, ma anche regista e direttore della fotografia di oltre 150 film e documentari, ha appena compiuto 99 anni. Alcune sue foto sono al Moma di New York. Nel 1960 viaggiò con Carlo Levi in Lucania. Le sue foto sono servite al pittore torinese per realizzare il grande telero, 18 metri e mezzo per 3 metri e venti, esposto a Palazzo Lanfranchi, a Matera.

Lo abbiamo incontrato la prima volta il 30 novembre 2014. Era domenica. Le strade di Firenze erano chiuse per la Maratona. All’Odeon, il più antico cinema della città aperto nel dicembre 1922, si svolgeva il 55° Festival dei Popoli, una rassegna di documentari provenienti da tutto il mondo. Quella mattina, in vista del 50° anniversario dell’alluvione di Firenze, venne deciso di proiettarne uno dal titolo Firenze, 4 novembre 1966, realizzato da Mario Carbone. Il sindaco, Dario Nardella, era arrivato in tuta da ginnastica per aver partecipato alla Maratona. Anche Mario Carbone, 90 anni già compiuti, aveva dovuto attraversare la città a piedi. Il sindaco e il direttore del Festival lo accolsero con un caloroso benvenuto. Il cinema, più di ottocento posti, era gremitissimo. Mario Carbone raccontò di essere arrivato a Firenze il giorno dopo l’alluvione. Si demoralizzò quando vide due grossi camion della Rai pieni di attrezzature per le riprese video. Lui aveva solo una piccola cinepresa e un magnetofono. Pensò di tornare indietro e di rinunciare al suo progetto. Poi invece proseguì. Si spensero le luci e cominciò la proiezione del suo documentario, della durata di 24 minuti con testo di Vasco Pratolini e voce recitante di Giorgio Albertazzi, due fiorentini Doc. Carbone aveva girato il suo film nei posti meno battuti. Era riuscito a salire su un elicottero dell’Esercito. Aveva sorvolato interi quartieri, ancora immersi nell’acqua e nel fango. Era entrato al mercato centrale dove tutte le merci erano state alluvionate e distrutte. Era salito in cima a un’abitazione per intervistare persone che si erano salvate rifugiandosi sui tetti e che erano ancora lì, in attesa di soccorsi. L’anno dopo, questo documentario, ebbe il massimo riconoscimento al Festival di Venezia, il Leone d’argento. Quella mattina all’Odeon gli appalusi e la commozione durarono più del documentario. Molti occhi erano lucidi. Tanti visi erano rigati dalle lacrime. Firenze, colpita al cuore, era riconoscente al mondo intero che l’aveva salvata, ma anche a Mario Carbone che era riuscito con delicatezza e intensità a restituirne un ricordo vivo e vero. «Mi tremavano le gambe per l’emozione», ha raccontato poi Mario Carbone. «Non mi aspettavo una tale accoglienza. Sembrava che fosse la prima proiezione e che non fossero passati 48 anni».

Mentre la gente continuava ad applaudire ci siamo diretti verso il regista per complimentarci e per porgergli una domanda: «Ma lei è quel Mario Carbone che nel 1960 ha viaggiato con Carlo Levi in Lucania?». «Sono passati più di cinquant’anni, ma sì, sono proprio io».

Mario è nato a San Sosti, un piccolo comune della provincia di Cosenza, in Calabria, che oggi conta circa duemila abitanti. Il mestiere lo apprese da un parente e lo affinò a Milano nello studio di Elio Luxardo e della sorella Elda, madre del regista Dario Argento. I Luxardo erano molto conosciuti nel mondo degli attori, dei cantanti, delle modelle. Un giorno Carbone vide una mostra di Henri Cartier-Bresson, padre del foto-giornalismo. Capì subito che i ritratti in sala posa non facevano per lui. Ora i suoi soggetti non stavano più fermi e impalati, ma si muovevano sul palcoscenico della vita, chiamato strada. I nuovi protagonisti non erano Vip, ma persone comuni, operai in lotta, contadini che occupavano le terre, studenti in rivolta. Tornò al Sud. A Roma dove ancora oggi vive.

«Avevo trovato alloggio a 300 metri da piazza del Popolo», racconta. «La sera andavo al caffè Rosati. Capitavano Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Raffaele La Capria e pittori come Aldo Turchiaro e Mimmo Rotella, calabresi come me. I pittori erano attirati da Plinio De Martiis, proprietario della galleria “La Tartaruga”, proprio sopra Rosati. E poi c’era un gruppo di giovani artisti, raggruppati nella Scuola di piazza del Popolo. Ricordo Cesare Tacchi, Jannis Kounellis, Mario Ceroli. Vedevo spesso Renato Mambor in compagnia di Paola Pitagora e Giosetta Fioroni con Goffredo Parise. E poi c’erano Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli, tutti e tre squattrinati, ma divorati dalla febbre della ricerca. A quel tempo dividevo lo studio, all’ultimo piano di via Leccosa, proprio con Franco Angeli, destinato a diventare uno dei protagonisti di quella stagione artistica. Nel 1960 lo scelsi come interprete di un mio documentario, intitolato Inquietudine. Anche quella volta adoperai la cinepresa, con pellicola 35 millimetri, come una macchina fotografica, senza l’aiuto di un cavalletto. Questo modo di girare in presa diretta piacque a Cesare Zavattini, che mi volle come operatore per uno degli episodi dei Misteri di Roma. Lavorai anche per Giuseppe Ferrara, Luigi Di Gianni, Lino Del Fra. Io stesso realizzai un episodio come regista. Fu l’inizio della mia lunga attività nel mondo del cinema che era cominciata nel 1958 quando vinsi il primo premio al Festival di Salerno col mio primo documentario Un asino per cristiano, diretto insieme a Axel Rupp, cineasta veronese. L’anno dopo mi venne assegnato il Nastro d’Argento come direttore della fotografia per il film I vecchi di Raffaele Andreassi».

Fra il 1960 e il 1970, nei locali della “Tartaruga” Mario Carbone e la moglie Elisa Magri aprirono la galleria d’arte Ciak. Fondarono una casa di produzione e girarono decine e decine di documentari divulgativi sull’arte sia per le scuole sia per la tv.

 

A Roma, sul finire degli anni Cinquanta, incontrò Carlo Levi. «La mia fidanzata di quel tempo – racconta Mario Carbone – era amica di Linuccia Saba. Fummo invitati a cena. Ci andammo tre-quattro volte. In quelle occasioni conobbi Carlo Levi. La sorpresa fu grande quando, presentandomi per la prima volta, gli dissi che mi chiamavo Carbone. «Carbone anche io» rispose lui. «Come Carbone anche lei? ». Al tempo dell’esilio in Francia aveva usato proprio questo cognome. Non Levi, ma Carbone. Carlo Carbone. La sua patente di guida era stata trasformata e intestata al finto nome di Carbone Carlo. Carbone è il cognome più diffuso a Grassano, il primo luogo del confino dell’antifascista torinese. Ma è anche il nome di un comune della Basilicata, forse il più piccolo, con i suoi seicento abitanti.

Quella prima sera, a cena, il vero e il falso Carbone simpatizzarono subito, nonostante i ventidue anni di differenza. Carlo Levi era nato, infatti, nel 1902, e Mario Carbone, nel 1924. Il più giovane, poi, veniva dal Sud, un Sud che Carlo Levi aveva cominciato a conoscere e apprezzare da quando il fascismo lo aveva sbattuto al confino in Lucania, prima a Grassano e poi ad Aliano.

«Nel 1960, mi chiamò Carlo Levi. Voleva che andassi in Basilicata con lui. Mario Soldati, direttore della Mostra delle Regioni, lo aveva incaricato di raccontare sulla tela la Lucania in vista del centenario dell’Unità d’Italia, programmato per il 1961. L’organizzazione di Torino gli mise a disposizione un fotografo che venne regolarmente pagato. Lo scrittore, però, invitò anche me: “Ho bisogno di ricordare alcune cose della Lucania. Vuoi venire? Sì? Allora porta la macchina fotografica”. Non mi disse perché chiamò anche me. Forse voleva fotografare il Sud con gli occhi di un meridionale. Ci andai. Gratis. Per amicizia. Partimmo in tre. Carlo Levi guidava la sua 1100 nera. Ma era anche la nostra guida turistica. Dopo il confino era tornato tante volte in Lucania, anche se per periodi brevi.

Quando entrammo in Basilicata sentimmo l’aria che odorava di legna bruciata e di pane appena sfornato. C’erano donne, vestite di nero, che lo impastavano. Come faceva mia madre. Questi paesini, somigliavano al mio. Mi sembrava di essere a casa, in Calabria. Il miracolo economico che stava riempiendo le strade con le Seicento e le Cinquecento, qui non era arrivato. Ci si spostava ancora con cavalli e muli. Viaggiammo da Potenza a Matera. Toccammo Ferrandina, Pisticci, Craco. Levi si fermava spesso con le persone che incontrava. Parlava. Ascoltava. Studiava i suoi interlocutori.

L’emozione lo colse a Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro, il sindaco poeta, stroncato da un infarto a trent’anni». Levi lo aveva conosciuto nella primavera del 1946, durante il suo giro elettorale. L’antifascista torinese vedeva in Scotellaro l’intellettuale che con il suo impegno civile e la sua passione politica poteva riscattare la Basilicata.

Scotellaro era stato eletto sindaco nell’autunno del ’46, a 23 anni. Il primo problema di cui si occupò fu quello dell’ospedale che non c’era e che serviva per combattere la principale causa di morte: la malaria. Riuscì ad aprirlo in nove mesi, con una sottoscrizione popolare. Costruì poi la scuola e avviò anche corsi di istruzione per adulti. La sua azione politica era dirompente perché nella sua regione il 60% della popolazione aveva votato per mantenere la monarchia. Il potere della classe dirigente, formata sotto il fascismo, era ancora fortissimo. La reazione al lavoro del giovane sindaco non si fece attendere. Nel pieno delle battaglie per l’occupazione delle terre, Rocco Scotellaro venne accusato di concussione e arrestato. Dopo 45 giorni venne scarcerato in fase istruttoria e reintegrato nella carica di primo cittadino. Ormai provato da quell’esperienza, preferì rassegnare le dimissioni.

A Tricarico, quel giorno, Carbone e Levi incontrarono Innocenzo Bertoldo, il vicesindaco socialista di Rocco Scotellaro. Portava il cappotto sulle spalle e la coppola in testa. Faceva il calzolaio e il musicista nella banda del paese. In ospedale c’erano il chirurgo Guido Barbieri Hermitte e Rocco Mazzarone, il medico che, più di altri, aveva lottato per debellare la tubercolosi e la malaria. Proprio a lui Rocco Scotellaro aveva fatto leggere le sue prime poesie. Poi andarono a trovare la mamma di Rocco, Francesca Armento. La morte aveva bussato quattro volte alla sua porta, ma non era riuscita a piegarla. Aveva 76 anni e il volto segnato dal dolore. Il marito Vincenzo era morto nel ’42, e i figli Paolo nel ’29, Rocco nel ’53 e Nicola nel ’59. La donna si avvolse in uno scialle nero e si avviò verso il cimitero con Carlo Levi. La tomba si affaccia sulla valle del Basento. Due blocchi di pietra formano una finestra. È stata realizzata dall’architetto Ernesto Nathan Rogers, dello studio BBPR, su indicazione di Carlo Levi e finanziata da Adriano Olivetti. Sulle pietre della tomba è inciso il verso finale di una poesia di Rocco Scotellaro intitolata Sempre nuova è l’alba, la Marsigliese del movimento socialista contadino. Ma nei sentieri non si torna indietro / altre ali fuggiranno / dalle paglie della cova, / perché lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova.

Sette mesi dopo la morte di Rocco Scotellaro la sua raccolta di poesie È fatto giorno, edita da Mondadori, con prefazione di Carlo Levi, vinse il Premio Viareggio.

«Lasciammo Tricarico e riprendemmo il viaggio», racconta Mario Carbone. «Salimmo a Grassano. Incontrammo i figli del gestore della locanda Prisco. Il Capitano, un ragazzino al tempo del confino, ora era un uomo con i baffi, quattro figli, e le valigie in mano, pronto anche lui a emigrare in America. Riscendemmo per poi risalire verso quello che Carlo Levi chiamava “il mio paese”: Aliano. Tutto era rimasto intatto. Molti ci vennero incontro. Tutti insieme arrivammo alla casa del confino, ma era chiusa. All’imbrunire raggiungemmo Alianello, una piccola frazione di Aliano, oggi un paese fantasma. Levi ci raccontò di esserci stato una sola volta, ma tutti quelli che incontravamo si ricordavano di lui. Come se non fosse mai partito».

«In quei pochi giorni trascorsi insieme – conclude Mario Carbone – scattai circa 600 fotografie. Servirono a Carlo Levi per dipingere il Telero. Ci sono persone che Levi ricordava nitidamente e altre che ha ripreso dalle fotografie. Le mie immagini sono esposte nella parete di fronte al Telero. Questo grande quadro, intitolato Lucania ’61, racconta la Basilicata attraverso la vita di Rocco Scotellaro, il “poeta della libertà contadina”, come lo aveva definito Carlo Levi, col viso piccolo e i capelli rossi. C’è Rocco da ragazzo. Rocco adulto che fa un comizio. E anche Rocco morto. In mezzo ci sono scene di vita nei Sassi e nella casa contadina; le occupazioni di giorno; il ritorno a casa sui muli, dopo il lavoro nei campi, e i padri della Lucania, dopo l’Unità d’Italia, che dalla finestra guardano all’oggi. I personaggi raffigurati sono 160. Fra le donne che piangono Rocco c’è la madre Francesca Armento, ma anche quella di Carlo Levi, Annetta Treves. C’è Linuccia Saba e Angela Longone, la mamma di Isabella Santangelo, la fidanzata di Rocco Scotellaro che non si è mai sposata e che è morta lo scorso aprile all’età di 98 anni. Intorno a Rocco che fa il comizio c’è Michele Parrella che scriveva poesie e le distribuiva per strada. C’è il pittore Renato Guttuso. C’è lo stesso Carlo Levi. C’è Rocco Mazzarone. C’è Umberto Saba. Nell’angolo a sinistra c’è la tomba di Rocco Scotellaro. C’è mastro Innocenzo Bertoldo, il vicesindaco, che ti riporta nella Lucania di un tempo non troppo antico dove si viveva nei Sassi o in una sola stanza con i bambini ammassati come sardine, le culle appese al soffitto e l’asino accanto al letto. Ci sono i contadini di Rocco Scotellaro e quelli raccontati da Levi nel Cristo. Per molti il Telero è la trasposizione pittorica, o la continuazione, del Cristo si è fermato a Eboli. Un libro che Rocco Scotellaro aveva definito «il più appassionato e crudele memoriale dei nostri paesi. Ci sono parole e fatti da far schiattare i signori nel sonno e sempre per la forza della verità ci sono morti e lamenti da far impallidire i santi martiri».

Carlo Levi

Lucania 61

(particolare)

olio su tela, sei pannelli

assemblati, 1961

321x 18.65 cm.

Matera, Museo Nazionale

d’arte medievale e moderna

della Basilicata