La donna dell’arte

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Intervista a Nadia Bassanese, straordinaria gallerista

di Gabriella Ziani

 

Per il compleanno di solito i regali si ricevono, invece Nadia Bassanese, per 20 anni titolare della galleria d’arte di piazza Giotti e ancor prima, con Emanuela Marassi, fondatrice della Tommaseo in via Canal Piccolo, allo scoccare del suo ottantesimo ha fatto il contrario. Ha regalato ad “amici e parenti” un libretto, Schegge (Comunicarte), in cui ha raccolto i più interessanti e brillanti mini-diari scritti nel tempo – su sollecitazione del critico Franca Marri – via via che ospitava artisti, andava in America a incontrare Leo Castelli (realizzando l’unica mostra nella sua città natale del grande gallerista triestino, padre della pop art a New York), organizzava mostre con Staccioli, Topor, Folon, Munari, Pericoli, Luzzati, Pratt, Altan e mille altri, intrattenendo distanti e divertenti relazioni con Claudio Magris, che, impegnatissimo, si negava («Non ho un briciolo di tempo a disposizione, non me ne chieda, è come se mi domandasse di mia sorella, non ho una sorella!»). Ma, tra Roy Lichtenstein e Michael Goldberg, incontriamo anche i nostri Nathan e Carmelich da un inedito punto di vista.

A proposito di regali, Schegge è una scheggia di fronte al fatto che questa elegante e discreta signora dell’arte ha donato tutto il proprio archivio alla Fototeca dei Civici musei, 50 faldoni di materiali relativi all’attività espositiva e 3500 stampe fotografiche, e già nel 2017 aveva ceduto  ampia documentazione sulla sua famiglia istriana (libro e “fondo” sono stati presentati di recente all’auditorium del Museo Revoltella), e di altre importanti preziose cose si è separata in favore dell’istituzione pubblica. Rompiamo, una mattina davanti a un caffè, il velo di questo nobile e tenace understatement.

 

Cominciando dalla fine, come mai in museo le intime foto di famiglia?

Avevo un amico che faceva volontariato alla Fototeca, mi disse che erano carenti di foto relative al periodo 1900-1940, allora tirai fuori quelle di papà bambino, e di quand’era granatiere a Roma, e le portai, e così conobbi Claudia Colecchia che dirige la Fototeca, e anche lei mi chiese foto, e portai a vedere quelle di famiglia: il matrimonio dei miei genitori, a San Giacomo, lei 19 anni, lui 24, con quattro damigelle, due in rosa e due in azzurro, e una carrozza coi cavalli bianchi. «Me le dà?» disse Colecchia. E io pensai: tanto, se muoio, va tutto in scovazze….

E poi il materiale della galleria, quando, nel 2003, chiude.

Tutta la documentazione (anche relativa al Curatorio del Revoltella, di cui ho fatto parte per 12 anni) era in quattro magazzini, ma vendevo anche quelli. Che fare? Chiamai Colecchia. In fondo, dissi, è storia della città, non un fatto personale. Ci vollero tre mesi per selezionare carte, inviti, recensioni, cataloghi, libri: dodici scatoloni. Ho regalato anche una piccola biblioteca tutta su Leo Castelli. Cinquanta sedie ho dato a Piccolo Sillani, che allora insegnava, è una fortuna se le cose possono servire a qualcuno. Bisogna alienare, quando è il momento giusto. Io so che sarò eterna… ma non posso assicurarlo.

Ma prima di tutto questo c’è Nadia Bassanese, che nasce…

Sono nata a Pinguente in Istria, mio papà Liubo era figlio di Domenico Sirotich, all’inizio guardia forestale. Sposò una donna di 12 anni più giovane che gli portò una cospicua dote. Aprì un forno e via via ingrandì l’attività, con un importante commercio di granaglie e forniture all’esercito, e divenne ricco, molto ricco. Mi ricordo il negozio, pieno anche di tabacchi e tessuti, e al piano di sopra l’abitazione col bagno piastrellato, la vasca, il telefono…

E poi arrivò la guerra.

E mio papà aiutò un suo amico partigiano, gli diede vestiti e soldi. Il ragazzo fu preso, e quel taglio grosso di soldi che aveva in tasca indirizzò i tedeschi. Solo mio padre poteva disporne, in zona. Lo catturarono e fu spedito in un campo a Forlì, e poi a Dachau… Mio nonno, che aveva relazioni commerciali con un importante collega tedesco, riuscì a farlo uscire per andare al servizio di questo signore, il quale però rispedì subito mio padre a casa… Mentre lui era ancora a Forlì, mamma voleva che ci trasferissimo lì, e sempre vi fu l’intervento del nonno: ci procurò riparo nella villa di suoi conoscenti a San Martino di Lupari in Veneto, dove tra il 1943 e il 1945 passammo ore di angoscia e speranza nell’attesa di rivedere papà. I Sirotich scapparono ad Abano, ma non la nonna, che restò impavida a difendere la bottega, la proprietà. So che in seguito la casa di Pinguente fu trasformata in un night club, ma per fortuna adesso è biblioteca civica, bellissimo, no?

La mamma Elda Fermeglia: un cognome che a Trieste ha la sua fama…

Era triestina, aveva lavorato come impiegata nel commercio di agrumi, ed era zia di Maurizio Fermeglia, che è stato rettore dell’Università. Maurizio è mio cugino, e l’altro mio cugino (di parte paterna) è Sergio Paoletti, docente di Biochimica e attualmente presidente di Area Science Park. Tre cugini, tutti e tre figli unici.

E dopo la guerra?

Papà voleva tornare a Pinguente, ma nel frattempo nonno aveva avuto un posto direttivo a Fiume, e così andammo là per due anni e mezzo. Una vita benestante, grandi alberghi ad Abbazia, feste…. Quando per gli italiani venne il momento di optare, i miei genitori fecero la richiesta, ma il permesso fu accordato solo a mia mamma triestina, e lei partì con me. Papà più tardi. Arrivò grazie a un passeur. E per sei-sette anni fummo ospiti dei nonni Fermeglia a Servola. Intanto vennero in Italia anche i nonni Sirotich, il nonno con una incredibile valigetta piena di rotolini di monete… Comprò un terreno a Gretta e fece costruire una casa, adiacente a quella dei Paoletti. Mio padre non ha mai più messo piede a Pinguente. Anni fa un collaboratore del piccolo museo della città mi chiamò perché decifrassi alcune foto, e mi chiese se avessi forse dei libri da dare. Avevo una grande collezione di testi per l’infanzia, in molte lingue, quasi tre metri lineari di scaffali: glieli ho regalati.

E a Trieste spunta la donna dell’arte… Come andò?

Io per errore ho frequentato il liceo scientifico. Odiavo la matematica, ma dalla terza media ero uscita col 10… I professori consigliarono l’Oberdan, dove per fortuna si dava ancora molto spazio alla storia dell’arte, al disegno… Avrei proseguito  con l’Accademia a Venezia, ma non mi vollero mandare, e allora con gli studi la piantai lì.  Ero appassionata, adoravo gli impressionisti, avevo una ricca biblioteca di storia dell’arte, pian piano cominciai a frequentare Livio Rosignano, Gianni Brumatti, l’ambiente mi attraeva, e la mia più grande amica (poi anche cognata) era Emanuela Marassi, che aveva Cernigoj come suo maestro, e con lei si andava ai mercoledì di Fulvia Costantinides, alla Cantina, da Sergio D’Osmo di cui poi a lungo abbiamo frequentato le sue giornate “open” nella casa alle Ginestre. Nel frattempo ero diventata amicissima di Giorgio Polacco, che mi aprì al teatro, aveva sempre due posti e diceva: «Te vien con mi o meto el capoto?». Con lui ho conosciuto Strehler, Grassi, l’incantevole Vittorio Gassman, e Dario Fo…

A un certo punto lei non è più Sirotich, ma diventa Bassanese…

Ho conosciuto mio marito Dino fra amici al Circolo Marina mercantile. Ci siamo sposati nel 1963 e adesso per l’anniversario ci facciamo gli auguri per la nostra durata… Mi ha sempre appoggiata, libera di svolgere la mia attività.

Che comincia un bel giorno.

Quando Marassi vuole aprire una galleria, e nasce con l’aiuto di Edoardo Devetta la Tommaseo in un piccolissimo spazio in via Canal Piccolo. Dopo un po’ lei si stanca, troppo impegno, e cede a Franco Jesurun, che ancora faceva l’attore, e il tutto mi è diventato pesante, e ho lasciato, nel 1980. Ma quanti incontri, Anita Pittoni veniva il pomeriggio a chiacchierare, Brumatti malinconico veniva al mattino, e purtroppo non potevo registrare tutte le cose incredibili che raccontava, per imitazione volle venire anche Spacal, e giù pettegolezzi, veniva Enzo Navarra col figlio piccolo, e Adriano Bon che doveva comprargli il gelato. S’incontravano fra di loro, una cosa che non esiste più.

Però anche lei se ne va.

Sì, e dopo un po’ mi è dispiaciuto. Mio marito mi ha sostenuto, abbiamo cercato una sede, mi sarebbe piaciuta in Cavana sotto la chiesetta dei Santi Sebastiano e Rocco, ma era della Curia, e allora no. Pensammo a un appartamento, e saltò fuori piazza Giotti: un signore aveva tutto restaurato per aprire una scuola di ballo, gli avevano negato il permesso, s’era incavolato e aveva rimesso in vendita.

Inaugurò nel 1983 con una scultura di cemento in bilico di Mauro Staccioli. Ardito.

Staccioli me l’aveva presentato Navarra già alla Tommaseo. Fu per me un pilastro. Quando tornò dall’America mi disse che lì ero già conosciuta, che dovevo assolutamente andare, ma da sola, le gallerie negli Usa erano tutte in mano a donne. Non era uno sgarbo a mio marito, ma un’indicazione pratica: «Se vai con qualcuno, dimostri che ne hai bisogno». Presi coraggio. Rispolverai i miei libretti della Berlitz school, e la frase che a New York pronunciavo più spesso era «please, speak slowly», ma quella che più spesso mi veniva rivolta era: «Are you local?». Che ridere. Con il neozelandese Alexis Hunter finimmo per parlare in latino. Fu fantastico. Mi sono tanto divertita. Fu sempre Staccioli a consigliarmi Carmen Gloria Morales («se viene lei, verranno tutti»), e tramite lei sono arrivati Michael Goldberg e la moglie Lynn Umlauf. Comunque quando fui ricevuta da Castelli glielo dissi subito: vorrei fare qualcosa, ma non ho molti mezzi. «Torni fra due giorni» mi rispose, elegante, cortese. Tornai, e fu così che nacque la mostra con i manifesti delle sue mostre. Spesi una follia. La mostra mi fu data gratis, ma le assicurazioni!, l’importazione!…

Agli artisti lei chiedeva se avessero “dietro” una filosofia. La sua qual era?

Di non esporre triestini, perché volevo portare a Trieste qualcosa di nuovo. Di avere lo spazio non a livello strada, non volevo passanti occasionali in galleria. Già quando Enzo Cogno e Miela Reina avevano la loro galleria La Cavana entrava gente che chiedeva: «Cossa xe qua?». «Una galleria». «Ah, e dove se va fora?». Mi è capitato comunque uno così: «Son vignù qua fin che piovi…».

Brutalmente detto, il gallerista guadagna o spende?

Costa più di quel che guadagna, la galleria. Certe opere, astratte, sono poco vendibili. Vendevo molto alle gallerie straniere, di Lubiana, di Vienna… Ma ho fatto tutto con le mie forze, il patto con mio marito era stato chiaro. Ho venduto, ho fatto libri, altre mostre, ho avuto i miei onorari.

Anche un bel volume, con Fabio Amodeo e Giulio Montenero, e le foto di Elio e Stefano Ciol, sulle pitture murali delle chiesette carsiche a cavallo del confine (Arte e natura a colloquio, Lint 2008).

Si andava in gita la domenica con amici, e un giorno al castello di Prem scoprimmo gli affreschi di Mario Lannes, e nella chiesetta quelli di Tone Kralj, e incuriositi continuammo a cercare e trovare (Spacal, Sbisà, Music, Cernigoj). Ne parlai con l’assessore comunale Roberto Damiani: «Sfondi – disse – una porta aperta». L’amministrazione Illy favoriva il dialogo italo-sloveno. Ottenemmo fondi europei, fu un buon lavoro, e il libro ebbe molto successo.

Stato dell’arte oggi?

Oggi si è interrotta la comunicazione. La Biennale è sommersa da video, dopo che ne guardi uno di mezz’ora non ne puoi più, e chi lo compra mai? Io neanche morta. L’arte moderna oggi difficilmente viene amata, al massimo suscita curiosità.

Se le dico Cattelan, Abramovic, Koons…?

Molti creano situazioni eclatanti, ma fanno supporre che vogliano più stupire che comunicare qualcosa. Non mi interessano, mi danno anche una sensazione di fastidio.

Buona idea spendere a Trieste un milione di euro per una mostra di van Gogh?

Intanto a Trieste a livello culturale pubblico siamo in una terra desolata, e anche senza prospettive perché non ci sono persone di cultura attive. Quanto a van Gogh, affascina i poco informati. Si spende tutto per una mostra sola, e se ne potrebbero fare tre di straordinaria qualità, arricchendo la città. Così invece la impoverisci. La fanno per i turisti delle crociere? Ma io lo vedo com’è la gente che scende dalle navi…

Gli artisti preferiti, in assoluto, da Nadia Bassanese?

Vermeer, Caravaggio. Per la costante ricerca della luce.

Un rimpianto.

Nessuno. Sono molto soddisfatta. Ho fatto tutto dal niente. Dal milione che mio marito mi ha prestato per dipingere le pareti in piazza Giotti, e che gli ho restituito lira su lira. Unico vantaggio, non ho pagato l’affitto. Poi le cose hanno i loro tempi, e a un certo punto si chiude, e l’ho fatto. Adesso, però, continuo a scrivere.

 

 

Copertina:

 

Nadia Bassanese

Schegge

Comunicarte, Trieste 2021

  1. 78, s.i.p.