Alla ricerca dell’identità perduta

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Il nuovo romanzo di Pietro Spirito

di Walter Chiereghin

 

Nell’opera narrativa di Pietro Spirito si intrecciano storie individuali con piccoli o grandi eventi della Storia che a volte travolgono altre volte sfiorano appena i personaggi d’invenzione che animano il romanzo. Così è stato in tutte o quasi le storie che ha narrato, sia che a dar vita ai suoi personaggi fosse un passato lontano nel tempo, com’è stato per La grande valanga di Bergemoletto, ambientato sulla metà del secolo XVIII nel Cuneese, e poi per Vita e sorte di Pierre Dumont socio di Dio, ancora nel Settecento, ma francese, oppure in un passato più prossimo, legato alle vicende e alle tragedie della Seconda guerra mondiale, com’è stato per la vicenda dell’affondamento del sommergibile Medusa con i suoi quattordici uomini in Un corpo sul fondo, oppure per Speravamo di più, in cui il protagonista “cinese” (in effetti un giapponese che rimane intrappolato in Italia mentre la sua gente e la sua città, Hiroshima, scompariva dalla faccia della terra) si ferma, integrandosi, in un paesino veneto. Oppure, ancora, per le figure dell’anziano professore e del criminale di guerra fascista che si alternano, grazie alla lettura di un dattiloscritto, nel romanzo Il bene che resta. Anche in quest’ultimo libro, che forse più di altri dello stesso autore mette in luce una serie di quesiti di ordine etico, ogni giudizio è inespresso e lasciato al lettore il che, se da un lato rivela la lunga consuetudine con la scrittura giornalistica di Spirito, dall’altra parte rivela un profondo rispetto dell’autore che esercita in questo modo la sua humanitas – troppo consapevole delle debolezze proprie e altrui e dell’inanità di un irrigidimento moralistico – nei confronti dei suoi personaggi.

Tutto quanto precede può esser detto anche per alcuni testi teatrali (La cameriera del Rex, per esempio, o Il direttore, entrambi recensiti dal Ponte rosso e disponibili sull’archivio web della rivista), come pure per il più recente romanzo Il suo nome quel giorno, uscito a febbraio per i tipi della Marsilio.

Per quest’ultimo lavoro di Spirito mi viene in mente l’aggettivo plurale: plurale l’epoca della trama, equamente divisa tra il 1961 e il 2008; plurale l’ambientazione degli eventi, anch’essa scissa tra un plumbeo campo profughi parzialmente svuotato, una casa a Cape Town spiata a distanza con Google Map e un paio di case in Carso al limitare di un bosco; plurale la focalizzazione sui personaggi: l’io narrante, archivista alla Cassa Marittima Adriatica, Vera, giovanissima ospite di un campo profughi sull’altipiano carsico che sceglie la via della prostituzione come momentanea digressione in un percorso segnato di emarginazione e grigiore, i genitori di lei, vinti dalla vita e dall’esilio e indotti a trascinarsi fino alle estreme conseguenze di un suicidio e dell’alienazione mentale, una donna resa edotta da adulta che i genitori che ha conosciuto non sono quelli naturali e che attraversa il mondo per incontrare la madre naturale. Plurale persino il nome di questa donna a caccia della propria identità, Giulia o Giuliana.

Il suo nome quel giorno, per quanto avvincente e agevolmente leggibile, è un libro più complesso di quanto a prima vista appaia, a partire da una riflessione sull’identità personale: “Crediamo che il solo fatto di avere un nome iscritto all’anagrafe, e di poterci guardare allo specchio la mattina, sia sufficiente a dire «io» con la possibilità di declinare questo pronome nelle infinite forme concesse dal nostro stare al mondo. Ma non è così.” (p. 20).

La complessità di cui si diceva si estende ad altri ambiti, tra i quali il principale è quello concernente la memoria, la stratificazione cronologica degli eventi, che è tema connotativo anche della stessa struttura del romanzo, in cui la narrazione si articola in due piani di scrittura del quale il primo, quello dei primi anni Sessanta, fa avanzare la vicenda e i personaggi in un naturale svolgimento diacronico, mentre l’altro, quello del 2008, pur procedendo ovviamente in maniera analoga, lo fa, come dire? con lo sguardo rivolto all’indietro, alla ricostruzione a posteriori della storia che è quella delle vicende narrate, frammentate come ci vengono presentate via via che altre tesserine vanno a comporre il complicato mosaico di esistenze non facili, edificate su menzogne, inganni e ostinati silenzi. I protagonisti ne diverranno consapevoli alla fine del loro percorso di ricerca, in una riflessione che si fa largo nel momento del cortocircuito emotivo del risolversi della vicenda: “Che farsene ora di tutto quel castello di bugie e di silenzi? È in occasioni come questa che il tempo rivela tutta la sua inconsistenza, la sua natura di entità effimera, convenzionale, soggetta a dilatazioni, contrazioni, vuoti improvvisi e altrettante improvvise accelerazioni.” (p. 168).

Complessi, inoltre, risultano i codici di comunicazione, inclusi quelli tecnologicamente avanzati dei quali si avvalgono l’archivista triestino e Giulia/Giuliana nelle loro chat tra Trieste e Città del Capo, ma anche in quelli diretti, come accade in alcuni snodi della storia, nello studio di un avvocato e, soprattutto, negli impacci conclusivi dell’incontro tra madre e figlia o negli approcci segnati da un’attrazione tra uomo e donna.

Non ultimo tra gli elementi di complessità del romanzo è dato dalla Storia collettiva che plasma e determina le storie familiari e individuali negli anni atroci tra le ultime convulse fasi della fine della guerra al confine orientale e in Istria e in quelle seguite all’esodo dalle terre rimaste soggette all’autorità jugoslava. Gli eventi storici costituiscono lo sfondo sfumato e opprimente delle storie individuali, sono il presupposto pesante che schiaccia le esistenze nel campo profughi in cui si attardano gli ultimi, quelli cui non è assegnato un lavoro, non un appartamento in una casa popolare, ma rimangono sospesi in quel limbo di precarietà e di rimpianto per quanto hanno dovuto abbandonarsi alle spalle, case, arredi, ricordi, relazioni, fotografie, oggetti, paesaggi sui quali era inconsapevolmente fondata l’identità di famiglie e singoli. Tale indeterminatezza del contesto storico vien meno soltanto in occasione di una rievocazione – che assume i toni di una potente narrazione epica – di uno degli episodi più crudeli delle ultime giornate del conflitto, quando si affollavano al Passo Ljubelj, tra Slovenia e Carinzia, folle di profughi italiani, di reduci tedeschi e di domobranci, i collaborazionisti sloveni che fuggivano le armate partigiane jugoslave per consegnarsi in Austria agli inglesi, che li avrebbero poi cinicamente consegnati agli uomini di Tito, con il prevedibile epilogo per tutti nel fondo di una foiba.

Rimane, in questo elenco delle complessità districate con destrezza per mezzo di una prosa lieve e scorrevole, quella relativa ai percorsi eticamente sensibili dei singoli personaggi, rappresentati, come s’è detto, senza alcun giudizio di merito, nemmeno latente, da parte dello scrittore.

Parlando in un saggio del romanzo Il bene che resta, Charles Klopp formulava (in Cronache dal cielo stretto, a cura di Charles Klopp e Cristina Perissinotto, Forum, Udine 2013) un’osservazione che mi pare calzante anche per questo più recente romanzo: “Spirito è passato dall’esame delle colpe di una collettività (lo Stato, nel caso delle Indemoniate, o le multinazionali in Speravamo di più) per concentrarsi sugli individui, personaggi non molto diversi dall’autore stesso e dai suoi lettori. Il riandare con la mente agli errori commessi è continuo e inevitabile in tutti questi libri. Quando però si tratta di atti commessi non da un gruppo ma da individui, essi vengono presentati in un contesto non tanto politico quanto poetico e morale”. I singoli, dunque, che animano la scena con tutto il loro portato di ambiguità e di egoismi, di coraggio e di viltà, nella loro solitudine, trascinati da una storia enormemente più grande di loro. Creature umane, insomma.

 

Copertina:

 

Pietro Spirito

Il suo nome quel giorno

Marsilio, Venezia 2018

  1. 185, Euro 16,50