Il supplente

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di Giuseppe O. Longo

 

Il maestro Vinicio Calcaterra era un giovanottone sui trenta, ben piantato, con la testa grossa e rotonda e la voce aspra. La pelle del viso, butterata per un’acne pustolosa mal guarita, e gli occhi sporgenti, peraltro quasi sempre nascosti dietro grossi occhiali da sole, gli davano un’aria di invincibilità che a noi ragazzini delle elementari faceva una grande impressione. Ma nonostante questo aspetto di forza incontenibile, il maestro Calcaterra non aveva fatto carriera: era rimasto al livello un tantino umiliante di supplente e lo chiamavano ogni tanto o al Guarini o al Varano per qualche settimana, un mese al massimo, quando i titolari si assentavano per qualche motivo. Da noi era venuto per un mese, quando eravamo in quinta, perché il maestro Tagliavini si era operato di qualcosa. Al primo incontro, il maestro Calcaterra mi era sembrato sussiegoso e scostante, anche perché non si sapeva mai dove guardasse per via degli occhiali da sole. E poi si esprimeva spesso con volgarità, per esempio una volta che Marchetti chiacchierava con il suo compagno di banco, il maestro gli si era avventato contro, l’aveva afferrato per un braccio e scotendolo forte gli aveva gridato con quella sua vociaccia invetriata, se non la smetti di chiacchierare ti faccio piangere come un gatto in amore. Queste parole mi avevano colpito molto e mi ero ripromesso di non contrariarlo mai. Siccome ero il più bravo della classe, e lui mi chiamava spesso alla lavagna per scrivere qualcosa o far di conto, mi pareva di essere entrato nelle sue scorbutiche grazie. Poi mi accorsi che non era così, se mi trattava con degnazione era perché non gli davo motivo di trattarmi male. Comunque fosse, il maestro Tagliavini ritornò, era in gran forma e fummo tutti contenti di non avere più a che fare con Calcaterra. Ma accadde che un gruppetto di noi si organizzò per andarlo a trovare e fargli gli auguri di Natale. A me il Natale non faceva né caldo né freddo, forse perché mio padre ci teneva tantissimo e io lo contestavo in tutto. Bene o male mi lasciai persuadere e mi aggregai al gruppo degli auguranti. Decidemmo di andare da Calcaterra la settimana prima di Natale, all’uscita dalla scuola. Dopo aver discusso la cosa, decidemmo di non avvertirlo, per non obbligarlo in nessun modo, disse uno, anche se non capivo in che modo avremmo potuto obbligarlo annunciandogli la nostra visita. Sta di fatto che ci presentammo a casa sua verso l’una e mezza, impacciati e confusi. Abitava in via Montebello, in un bellissimo palazzo del Cinquecento di mattoni rossi e dalle finestre inferriate, che spuntava incerto dalla gran nebbia. Con varie scuse molti si erano defilati, eravamo rimasti in quattro, uno in più dei Re Magi. Sonammo e ci fu aperto il grande portone, entrammo in un atrio umido e buio, che sentiva di muffa, c’erano delle biciclette appoggiate al muro. Cercammo di orientarci e nel mentre si aprì una porta, una signora anziana ci chiese chi siete? che cosa volete? cerchiamo il maestro Calcaterra, al che la donna disse, venite dentro, sta mangiando. Ci condusse in una stanza grande, riscaldata al massimo, i nostri cappotti cominciarono a fumare. Il maestro era seduto a tavola, stava mangiando una minestra, mi parve, aveva i soliti occhiali da sole e non ci salutò nemmeno, non ci chiese niente, continuò a mangiare lentamente, una cucchiaiata dopo l’altra. Noi eravamo sempre più imbarazzati, ma la donna, che doveva essere sua madre, ci chiese se volevamo una fetta di panettone, dài Vinicio, sono venuti a farti gli auguri, disse poi mentre portava via dal tavolo il piatto vuoto. Il maestro si tolse gli occhiali con un gesto lento, teatrale, e vedemmo che aveva pianto, gli occhi erano gonfi di lacrime, fece una strana smorfia, le labbra gli tremarono, poi si alzò in piedi di scatto, rovesciando la sedia dietro di sé e uscì di corsa dalla stanza, lasciando sulla tovaglia gli occhiali, imbrattati di minestra e di lacrime, urtando sua madre che stava entrando con il panettone per noi.