Il diario di Virginia

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Pubblicato presso Bompiani il primo volume dei diari di Virginia Woolf (1915 – 1919), finora mai tradotti integralmente

di Gabriella Ziani

 

«Per partire con il piede giusto, questo diario dovrebbe cominciare l’ultimo giorno dell’anno vecchio, quando, a colazione, ho ricevuto una lettera della signora Hallett. Diceva che aveva dovuto licenziare Lily in tronco perché si era comportata male. Noi naturalmente abbiamo immaginato a che tipo di comportamento alludesse; un giardiniere sposato, ho tirato a indovinare. A furia di congetture ci siamo rovinati tutti & due la giornata». Ottimo e birbante inizio per un romanzo. Si sa che nei buoni romanzi inglesi d’epoca (per non parlare della serie televisiva Downton Abbey) cameriere e cuoche sono il perno del girotondo domestico. E invece no. Si tratta delle prime righe di un vero e proprio caso editoriale. Il diario è di Virginia Woolf.

In quest’anno di grazia e disgrazia 2022, è per la prima volta tradotto integralmente nella sua prima parte, che va dal 1915 al 1919. Studiosi e cultori l’hanno letto nell’edizione inglese, il lettore italiano ha avuto fin qui a disposizione solo la stretta sintesi curata dal marito Leonard Woolf (Diario di una scrittrice, Mondadori 1979). Lode dunque alla Bompiani che mette a segno un (tardivo) bel colpo, e chissà perché nessuno l’aveva fatto prima, partendo con un primo volume dotato di ottimi apparati, tra cui le biografie dei tantissimi personaggi citati e la descrizione dei luoghi in cui si muove, farfalla lieve, la più grande scrittrice del Novecento, che proprio in quegli anni è al suo debutto letterario, con La crociera (The voyage out, 1915) e Notte e giorno (Night and day, 1919).

Nata nel 1882, Virginia ha dunque 33 anni quando comincia a scrivere il diario, da tre è sposata con Leonard, scrittore, saggista, commentatore di politica internazionale, direttore della International Review, e con lui vive tra la Hogarth House di Richmond nei sobborghi di Londra e le case di campagna del Sussex, prima Asheham House, e poco dopo Monks House, dove i due daranno vita a uno strepitoso giardino. Si porta appresso però quell’aura di arte, snobismo, modernità e ribellione germinata in precedenza durante il periodo bohémien trascorso nel quartiere di Bloomsbury, nell’intervallo tra la mesta situazione familiare e il quieto e felice passo a due con il marito, che le sarà di supporto anche nei molti e gravi crolli mentali: un tentativo di suicidio poco dopo il matrimonio, una grave e invalidante crisi proprio nel 1915, e infine il suicidio riuscito, nel 1941.

Inoltrarsi in questo diario giornaliero significa salire su una giostra di cui – finché non ne catturiamo il vero senso – ci sentiamo inutili spettatori. Come dice Mario Fortunato nella sua limpida prefazione, notando come dopo il crollo nervoso Virginia abbia ripreso a scrivere ma senza annotare importantissimi fatti privati e pubblici accaduti nel frattempo in quel 1915, tra cui l’entrata dell’Inghilterra nella prima guerra mondiale: «Quando ricomincia a scrivere il 3 agosto lo fa come se niente fosse accaduto. E attacca una tiritera di pranzi, cene, tè, weekend in campagna, incontri, chiacchiere, persone». Perfetto: questo è il diario. Virginia incontra quotidianamente una folla di amici, parenti e conoscenti, a casa sua o ospite di altri, al Club 17 d’ispirazione socialista co-fondato dal marito, alle mostre, ai concerti, per strada, ai pranzi, alle cene e a colazione o all’immancabile tè,  e tutti invita di continuo alla sua mensa o per il weekend – se ne ha riscontro nelle lettere, queste sì pubblicate in cinque volumi da Einaudi tra 1980 e 2002 (manca il periodo 1939-1941). E parla e parla, di arte e letteratura, seminando pettegolezzi e malignità sugli amici, fino ad avere le labbra riarse – così scrive.

La sua corte è composta dalla sorella pittrice, Vanessa Bell, che vive non molto distante, da suo marito, il critico d’arte Clive Bell, dal pittore Roger Fry del quale in seguito scriverà la biografia, dall’amica scrittrice Katherine Mansfield (ma le due si studiano a distanza senza fraternizzare), dallo scrittore Lytton Strachey (Eminenti vittoriani), dal pittore Duncan Grant (nuovo compagno di Vanessa) e un’infinità di altri. Legge libri con furore (anche i classici greci), scrive recensioni, registra senza sosta il pessimo clima inglese inondando anche noi di continue piogge «infernali» e venti gelidi, di neve, fango e cieli plumbei. E non si smentisce nel proverbiale snobismo. Passeggiata a Hampstead, 24 aprile 1919: «Il nostro verdetto è stato che la folla a distanza ravvicinata è detestabile; puzza; è appiccicosa; non ha vitalità né colore; è un tiepido ammasso di carne che ha la struttura approssimativa della vita umana». Per contro (14 gennaio 1918): «Io per fortuna sono “Bloomsbury” in persona», un’etichetta che circoscrive un mondo élitario, eccentrico, colto, spiritoso, sessualmente libero, criticone ed esigente.

Nel 1917, dunque negli anni di questa porzione di diario, la coppia Woolf darà vita alla propria casa editrice, la Hogarth Press che prese il nome dalla loro casa, dove troneggiava il torchio. Con caratteri montati pazientemente a mano, da dilettanti, via via pubblicheranno la Mansfield, Eliot, i principali romanzi di Virginia stessa nonché l’opera completa di Freud (ma non Joyce).

A un certo punto ci sentiamo spettatori molto meno inutili. La stessa Woolf si interroga sui motivi per cui scrive questo diario,  «approssimativo & altalenante, spesso sgrammaticato (…)». Poi trova la ragione: «E ora gli concedo un piccolo complimento, perché ha velocità & vigore, & ogni tanto coglie inaspettatamente nel segno. Ma la cosa più importante è la mia convinzione che questa abitudine di scrivere a mio esclusivo beneficio sia un ottimo esercizio. Scioglie le giunture». Dunque, una palestra di ginnastica letteraria, mentre il mondo intensamente frequentato è la materia prima da immagazzinare a più non posso, e metabolizzare in vista di una traduzione “linguistica”, letteraria: «La vita si affastella così in fretta da non darmi il tempo di scrivere il cumulo di riflessioni che cresce di pari passo» (19 marzo 1919). Virginia è essa stessa letteratura, anche quando si occupa dell’usurante via-vai delle domestiche, del burro razionato, del pane da impastare, dei guai domestici. Molto meno registra la guerra, di cui mette a nota echi di bombardamenti, senza fiducia nel potere della politica, tacciando come «festa da donne di servizio» la sfilata che inonda le strade all’annuncio della pace.

Però a un certo punto immagina che forse un giorno questo materiale si affinerà da solo, diventando «trasparente quel tanto da riflettere la luce della nostra vita, & però saldo, pacato, composto col distacco di un’opera d’arte» (20 aprile 1919). Quanto vero.

Pochissimo riferisce la Woolf del suo romanzo in gestazione, Night and day, limitandosi a spolverare i giudizi del tutto contrastanti che le arrivano non appena è pubblicato: li tratta con amore-odio da passeggero chiacchiericcio, qualcosa da sopportare prima di rimettersi comunque a scrivere. Nelle lettere coeve racconta che il romanzo è stato giudicato da alcuni passionale, e da altri gelido, segno che il primo tentativo di esplorare «il sottosuolo» – come lei stessa lo definisce – ha colto molti di sorpresa, incerti su come decrittare i vari piani narrativi.

E allora, usciti dalla giostra del diario che, alla prova dei fatti, è veramente un romanzo e non solo lo sembra dall’incipit, niente di più interessante che andare a rileggere proprio il libro nato in corrispondenza con queste pagine frementi. Qualcuno, racconta Virginia, aveva definito Night and day «austeniano», e c’è superficialmente qualcosa di vero, cioè un sentore di Jane Austen. Ma nel balletto familiar-sentimentale che la Woolf governa per oltre 500 pagine con mano fredda e mente fervida appaiono già i fondamenti dei suoi futuri romanzi che, sviluppandosi sugli inediti percorsi del flusso di coscienza, cambieranno la fisionomia della narrativa novecentesca (La camera di Jacob, Al faro, Mrs Dalloway, Orlando, Le onde). C’è già l’impegno femminista che porterà ai saggi-manifesto Una stanza tutta per sé (1929) e Le tre ghinee (1938). Troviamo il profilo della giovane donna che studia matematica di nascosto e sogna di applicarsi all’astronomia anziché legarsi in matrimonio come ci si attende da lei (la Woolf stessa fu impedita negli studi superiori a causa del proprio sesso, e si istruì da autodidatta), mentre la sua amica del cuore vive sola e sceglie di lavorare per mantenersi, impegnata proprio nel campo dell’emancipazione femminile. C’è pure una ben distribuita granella di divertente ironia: sul mondo upper class londinese, sul classismo che connota quella rigida società, sul culto delle mezze glorie letterarie, per cui la babbuccia del poeta conservata nella stanza-museo di casa è meta di pellegrinaggi turistici.

La trama sembra semplice. Katherine Hilbery (il cui modello è la sorella Vanessa) studia di nascosto, ma si comporta come una perfetta fille de famille altolocata, e asseconda la madre, simpaticamente svitata, nel culto di suo padre, il poeta che dà lustro alla schiatta. Si fidanza poco convinta con William Rodney, un perfetto esemplare di vuoto formalismo british, ma chi la ama con romantica passione è un giovane avvocato di pochi mezzi, Ralph Denham. Tutti a ruota si confidano con l’amica comune Mary Datchet, l’emancipata che ha già «una stanza tutta per sé» (l’espressione appare nel romanzo, significativa anticipazione), che ascolta ognuno con materna calma. Ma in realtà ama Ralph, e cerca di portarlo a sé, inutilmente. Colpo di scena, il damerino Rodney s’invaghisce di Cassandra, cugina di Katherine, la quale maneggia il caso con apparente freddezza, e (scandalo) le cede il fidanzato, benché in segreto pianga sulla propria solitudine, il prezzo del coraggio. Per sapere il finale, meglio leggere il libro.

Ma il tessuto non è solo nella vicenda, peraltro significativa al di là dell’impianto sentimentale. Ciò che cuce le trame sono i pensieri dei protagonisti, la loro vita interiore, le “visioni” che smaterializzano i fatti, le costruzioni mentali, insomma una tridimensionalità tra esterno e interno, sentimento e ragione, società e individuo, tradizioni e modernità, sogno e realtà, tutti insieme a comporre una vibratile complessità psicologica che più tardi sarà la cifra rivoluzionaria di Virginia. Nondimeno, per vivacità e sodezza, per l’abilità magistrale dei dialoghi e la regia delle scene, Notte e giorno diverte e cattura. Proprio come il diario.

 

Virginia Woolf

Diari

(1915-1919)

a cura e nella traduzione

di Giovanna Granato

Bompiani, 2022

  1. 496, euro 28,00