“Vent’anni”: un racconto breve di Silva Bon

Vent’anni di Silva Bon

La leggerezza della giovinezza. Ma forse dovrei dire solo un breve incanto: sette giorni privi di dolore e di affanni. Sette giorni puliti, onesti, spensierati, felici. Solari.

Ricordo la Liguria dai colori smaltati, blu, cobalto, verde, terra di Siena bruciata, arancio, oro. Un’estate che si apriva ai piccoli lussi, ingenui e provinciali, del boom economico.

Ricordo l’amicizia di due ragazzi e due ragazze, non ancora usciti pienamente dall’età dell’adolescenza, che giocavano a fare i grandi, a concedersi qualche dono inaspettato, gratificante; a rompere la routine di una vita di studi, di scarse frequentazioni amicali, di solitudine e incomprensioni, di difficoltà esistenziali.

Amicizia solidale. Fatta di condivisione entusiasta, democratica nelle scelte di strade, di occasioni, di cibi. Fatta di risate franche e sincere. Fatta di rispetto reciproco. Fatta di scoperte innocenti e divertenti. Fatta di bellezza, dentro e fuori.

Un’automobile, presa a noleggio, era il mezzo di trasporto inusuale, che dava allegria, sicurezza, indipendenza. Per scoprire, intorno a Genova, l’incanto di Rapallo, di Santa Margherita, di Portofino, di Camogli, di Recco.

I Bagni Doria, nel cuore di Genova, un elegante stabilimento ben frequentato, accoglievano quei giovani che liberi gareggiavano in tuffi, in nuotate nel mare ondoso e freddo; si bruciavano al sole; si ritrovavano intorno al giradischi di qualcuno oppure intorno al Jukebox, per ascoltare musica e ballare. Balli lenti, a coppia, soprattutto. Era l’estate di “Vivrò”, gettonata come un mantra … La musica francese preferita dava l’aria di intellettuali, di intenditori …

E la focaccia, comperata nei forni dei paesini costieri, che si aprivano all’angolo di improbabili strade in salita: ricordo la fragranza del profumo caldo del pane appena sfornato e del formaggio acido, fuso. Era lo spuntino quotidiano, assaporato in piedi, nei vicini crocicchi; unica possibilità per studenti squattrinati, ed era anche peccato di gola.

I viali lungo la costa, anfratti tortuosi, profumati dalla fragranza di fiori, colorati da fiammanti bouganville e maestosi oleandri, soprattutto, percorsi quasi correndo, contro il vento e incontro alla vita. Come la corsa lungo la statale, i finestrini aperti, i capelli al vento, la pelle calda di sole e di luce … il meriggio non dava sconforto, ma anzi esaltava le possibilità, le energie giovanili.

E si fermavano per rinfrescarsi, nella penombra dello spazio scuro di qualche vineria: un bicchiere di rosso, uno solo, i soldi non bastavano mai, e loro volevano restare sobri, pur allegri, eccitati, da quella minima trasgressione.

Giovani felici, in un incontro fortunoso, magico, irripetibile.

Che però lascia una traccia: doni gentili, una cravatta, un libro di poesie, in cui ritrovare i tratti di ciascuno, in cui sognare un futuro, che al di là di quei giorni, appariva incerto. Un addio. Ognuno per la sua strada, ognuno incontro al proprio destino. Di orrori e sofferenze. Indicibili. Ma tutto era segnato.

La perfezione di quell’intrecciarsi di sguardi si frantuma di fronte a una realtà ostile, prescrittiva, deviante e deviata.

Resta indimenticabile il ricordo, che è consapevolezza che quei giorni sono stati: che se non hanno dato frutti, restano concreti nella memoria.

E nei giorni cupi quel ricordo può ancora illuminare, come la certezza che il bene è possibile. Che, se è stato, può essere ancora.

Trieste, 29 luglio 2018, domenica, h. 23