Fausta Cialente deve uscire dall’ombra

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Con Le quattro ragazze Wieselberger l’autrice si è conquistata di diritto – oltre che per discendenza familiare – una patria elettiva a Trieste

Fin dal 1953 osservava che « La società italiana, in tutti i suoi strati, non è composta solamente di cretine maliarde, di ottuse massaie, di amanti isteriche»

di Gabriella Ziani

 

Cercasi biografo. Per dare piena luce al brillante e multiforme profilo personale e intellettuale di Fausta Cialente (1898–1994): grande narratrice del nostro Novecento, attiva antifascista durante gli anni vissuti in Egitto e poi, nel secondo dopoguerra, giornalista militante sulle pagine di Noi donne e dell’ Unità, e femminista impegnata a denunciare la subordinazione cui le donne erano costrette nell’ambito familiare e produttivo. In precedenza aveva puntato i fari sul razzismo “beneducato” che regolava i rapporti tra autoctoni e occidentali nelle ricche dimore di Alessandria e del Cairo.

Non certo da ultimo, Cialente è autrice del famoso “memoir” Le quattro ragazze Wieselberger (di cui sua madre Elsa era una), col quale si è conquistata di diritto – oltre che per discendenza familiare – una patria elettiva a Trieste, lei che di patrie vere non ne ebbe proprio mai, errabonda per tutta la vita. Quella “addolorata fatica” (come la definì nella nota finale all’edizione mondadoriana del 1976, premio Strega) è un capolavoro non solo per la pittorica vivacità con cui è descritto l’ambiente triestino e familiare negli anni precedenti la prima guerra mondiale, e quelli che seguirono la seconda, ma perché vi marcia dentro una poderosa denuncia di come l’irredentismo fosse stata una miope illusione, una battaglia della ricca borghesia per salvare se stessa, cosa che poi non avvenne, coi disastri privati e pubblici che ne seguirono, fino al fascismo. Non per niente guida spirituale, con una citazione che fa da apertura al libro, è il socialista Angelo Vivante, l’ardente “internazionalista” di Irredentismo adriatico.

Adesso un po’ ripubblicata, e un po’ disvelata, ma in fondo sempre troppo in ombra, Fausta Cialente davvero aspetta un solido studio complessivo, in parallelo a La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg di Sandra Petrignani (Neri Pozza, 2018): entrambe scrittrici con profonde e identitarie radici a Trieste, declinate in storie autobiografiche (che cos’è più delizioso di Lessico familiare della Ginzburg?), entrambe catturate da indimenticabili locuzioni dialettali, un concentrato di filosofia popolare che si fa universale fuori dai suoi confini di spazio e di tempo: “Non fate potacci, non fate sbrodeghezzi” (Ginzburg), No ste bazilar… Varda ti se meritava!… Ognidun suo piazer! (Cialente). Coincidenza curiosa, il primo romanzo di Fausta si chiamerà proprio Natalia. Scritto nel 1927, pubblicato nel 1930, censurato dopo la prima edizione per “oltraggio al pudore” a causa di una scena saffica e “oltraggio alla patria” per come è citata Caporetto, è una storia al femminile torbida, vischiosa e triste, che si snoda in relazioni ambigue e accadimenti cupi e dolorosi: un “verismo” psicologico più attuale oggi che all’epoca, e giustamente il romanzo è stato ripubblicato (La Tartaruga, 2019).

Ma è già nella biografia il seme della straordinarietà. La mamma Elsa Wieselberger, promettente cantante lirica, aveva abbandonato la carriera e Trieste per sposare un ufficiale del “Regno”, che farà peregrinare la famiglia in tutta Italia, senza che i figli (Renato e Fausta) possano avere scuole regolari e amicizie stabili. Lascerà poi l’esercito per vane speranze di affari, trasportando moglie e figli a Milano, Roma, Firenze, Genova negli anni di guerra, e ancora a Milano.

Fausta sposa – nozze a Fiume, nel 1921 – Enrico Terni (1876-1960), bancario ma anche musicologo, compositore, animatore culturale con il circolo “Atelier”, con base ad Alessandria d’Egitto dove la sua famiglia (ebraica) vive fin dal primo Ottocento. Nella sua fornita biblioteca la futura scrittrice scopre Proust, Kafka, Joyce, la Woolf, Mann, Conrad e tutta la grande letteratura, immettendosi in un ambiente cosmopolita, colto e ricco. Nasce nel 1923 la figlia Lionella (Lili), e Fausta comincia a scrivere. Dopo Natalia, il racconto lungo Marianna. Del 1930 è Cortile a Cleopatra, ambientazione egiziana, di cui Mondadori rifiutò la pubblicazione (uscì sull’Italia letteraria nel 1935 e in volume da Corticelli l’anno dopo). Per tutti gli anni Trenta produsse racconti e novelle. Entrata in amicizia con Sibilla Aleramo, condivise da allora le battaglie per l’emancipazione femminile.

Con la promulgazione delle leggi razziali in Italia “L’Atelier” divenne un circolo politico. E con la guerra la vita della Cialente ebbe una svolta decisiva. Si trasferì di nascosto da sola al Cairo entrando nella lotta antifascista: per più di sei anni a “Radio Cairo” come titolare di un programma per i prigionieri di guerra nei campi di concentramento anglo-egiziani, diventò un’attrice smaliziata e “arrogante” – così lei stessa si definì – nel torbido mondo della controinformazione bellica. Nel ’43 fondò con Laura Levi il settimanale Fronte unito, ma quell’anno fu per lei fatale. Il fratello Renato, ormai celebre attore teatrale, morì fuori dal Teatro Argentina a Roma, investito da un mezzo militare tedesco, mai si seppe se per caso oppure no. Un dolore irrimediabile.

Di quell’esperienza bellica la Cialente conservò i famosi “diari”, che la figlia nel 1998 (quattro anni dopo la morte della madre) donò al Fondo manoscritti di Pavia diretto da Maria Corti, secretandoli. Sono stati pubblicati nel 2018 da Donzelli in Radio Cairo. L’avventurosa vita di Fausta Cialente in Egitto.

Il dopoguerra inaugurò una ennesima dimensione esistenziale. Fausta lasciò il marito per tornare in Italia dalla madre Elsa, prima a Varese dove la donna era sfollata con la sorella Alice, e poi a Roma. Divenne una firma della rivista Noi donne diretta da Maria Antonietta Macciocchi, scrisse sul quotidiano del Pci L’Unità e su Rinascita, fu inviata sul campo tra le mondine piemontesi, le contadine lucane, le conserviere del Napoletano, le retaie di San Benedetto del Tronto, le mezzadre toscane. Ma disse parole forti anche contro gli stilemi letterari e cinematografici del tempo: «[…] Autori, produttori, cineasti non ci hanno dato una figura di donna alla quale poter offrire il lauro per volontà, dignità o intelligenza. Il sacrificio materno è quanto possiamo sperare di meglio […]. La società italiana, in tutti i suoi strati, non è composta solamente di cretine maliarde, di ottuse massaie, di amanti isteriche» (L’Unità, 1953).

Anche i romanzi presero il volo. Nel ’53 venne ripubblicato da Sansoni Cortile a Cleopatra accompagnato dall’entusiasmo di Emilio Cecchi ed Eugenio Montale, nel 1961 uscì da Feltrinelli Ballata levantina (ex aequo allo Strega), e poco dopo Pamela o la bella estate e altri racconti. Tradusse Clea, l’ultimo romanzo ambientato ad Alessandria della quadrilogia di Lawrence Durrell (avrebbe poi tradotto anche il ciclo Piccole donne di Louisa May Alcott, e Giro di vite di Henry James per Einaudi). Del ‘66, sempre per Feltrinelli, uscì Un inverno freddissimo ambientato nella Milano del dopoguerra, ripubblicato nel ’76. Un successo anche popolare: ne fu tratto lo sceneggiato tv Camilla con regia di Sandro Bolchi e Giulietta Masina protagonista. Infine, il passaggio alla Mondadori: Il vento sulla sabbia e, nel 1976, Le sorelle Wieselberger, premio Strega. Qui l’ammaliante ricostruzione della Trieste “asburgica” si lega alla denuncia politica, al romanzo di formazione, e a una severa inquadratura del destino degli esseri femminili rispecchiati in quello della madre e delle zie: “Le mogli non impareranno mai che non vale la pena, nemmeno per i figli, di patire tanto”. Lei stessa aveva lasciato il marito, e altrettanto fece -– tardivamente – sua madre Elsa. Varda ti se meritava….

Ma la vita erratica continuava. Nel ‘45 la figlia Lili aveva sposato John Muir (1918-1990), un ufficiale inglese, arabista, altrettanto “nomade” per professione. Una volta morta la mamma triestina, la scrittrice si aggregò al nuovo nucleo familiare, viaggiando moltissimo, specie in Medio Oriente, con una lunga sosta in Kuwait (vedi le ultime, dolci e tristi pagine di Le sorelle Wieselberger, inno alla continuità esistenziale attraverso le generazioni). Si fermò da ultimo con i Muir a Pangbourne nella regione inglese del Berkshire, dove morì l’11 marzo del 1994. Sempre nel ’98, centenario della nascita, la figlia traslò le ceneri nel borgo di Caldana (Varese) nei pressi del “Grillo”, la casa nei pressi del Lago di Varese che Fausta si era fatta costruire negli anni Cinquanta. Una “stanza tutta per sé”, di woolfiana memoria.

 

 

Fausta Cialente

Natalia

La Tartaruga, Milano, 2019

  1. 254, euro 20,00

 

Fausta Cialente

Le quattro ragazze Wieselberger

La Tartaruga, Milano, 2018

prefazione di Melania Mazzucco

  1. 270, euro 18,00

 

Fausta Cialente

Cortile a Cleopatra

Dalai, Milano, 2004

  1. 255, euro 18,20

 

Maria Serena Palieri

Radio Cairo. L’avventurosa

vita di Fausta Cialente in Egitto

Donzelli, Roma, 2018

  1. VIII-248, euro 25,00