Film tra USA e Regno Unito

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Due società prese in esame da Ewan Mc Gregor e da Ken Loach

di Gianfranco Sodomaco

 

C’è chi ha sostenuto, dopo il premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, che il vincitore morale è stato Philip Roth, statunitense pure lui e autore del romanzo Pastorale americana. Dopo aver letto il libro e visto il film del giovane inglese Ewan Mc Gregor, interprete e regista, siamo assolutamente d’accordo con costui. Perché? Perché Roth mette il dito su una piaga rovente della società americana, quella della guerra in Vietnam e delle reazioni in patria. Dice Roth: “Sto pensando agli anni ’60 e alla confusione provocata dalla guerra nel Vietnam, a come certe famiglie persero i figli e certe no, e a come la famiglia di Seymour Levov fu una delle prime famiglie piene di tolleranza e di buona volontà amorevole, ben intenzionata, progressista; e furono i figli di queste famiglie a dare di matto…” Andiamo allora alla storia. Seymour Levov è un eroe sportivo, detto lo Svedese, che conduce una vita felice e agiata, con la moglie Dawn (la bellissima Jennifer Connelly) e la figlia Merry (Dakota Fanning), all’interno della comunità ebraica di Newark. Ma Merry, fin da bambina, ha balbettato e la madre, tutta presa da se stessa (ha vinto un concorso di bellezza) a stento accetta, col marito, di andare dalla psicologa. La psicologa intuisce subito ciò che nessuno mai capirà: Merry è in conflitto con la madre, non potrà mai essere bella come lei, finirà, crescendo, con l’evitarla. Tutto sembra, apparentemente, convivere fino a quando la figlia adolescente non comincia a frequentare i gruppi estremisti radicali di sinistra che protestano contro la guerra in Vietnam. Qual è il motivo di questa scelta? Merry, davanti alla bellezza della madre (e alla sua freddezza), sentendosi inadeguata, ‘inferiore’, non riuscendo mai più ad identificarsi con lei, non ha altra scelta che prendere una strada diversa, extrafamiliare, quella della ‘rivoluzione’. A un certo punto Merry non si fa più vedere (andrà a vivere con i barboni della città), e costringe Seymour a cercarla, per convincerla poi della sua scelta sbagliata: la madre continuerà a mantenersi fredda, anzi irritata per l’incomprensibile atteggiamento della figlia (e del marito) e si farà un amante. Merry l’ha combinata grossa, ha messo una bomba in una stazione di benzina provocando la morte di un uomo. Merry frequenta a tal punto la politica che inizia ad odiare il suo paese, l’America capitalistica che non si accorge della povertà, dei problema dei negri ecc. fino a rifiutare totalmente la famiglia, che rappresenta tutto ciò che ormai odia (anche perché comincia ad essere ricercata dalla polizia). Seymour si rifiuta di credere che la figlia possa aver compiuto quel gesto e insiste nella sua ricerca finché non la trova, barbona come i suoi ‘amici’. Merry non balbetta più, i due confessano di volersi bene ma non si comprendono, lei ha deciso definitivamente: non farà mai più ritorno a casa. La rivedremo solo quando il padre morirà, da sola, davanti alla sua bara.

Insomma, una tragedia familiare come tante? No, il film prende, avvince, diventa sempre più il simbolo, significativo, di una società in crisi, divisa, tesa, e lo spettatore oggi, col senno di poi, pensa all’America confusissima del signor Donald Trump, dopo che l’Oxford Dictionary, il dizionario più famoso del mondo, ha pensato che la parola dell’anno non poteva che essere “Post-truth”, post-verità, cioè un mondo, per quello che gli Stati Uniti rappresentano, dove la soggettivizzazione, fino ad arrivare alla menzogna, ha rimpiazzato la verità, dove i fatti non contano più e il dialogo, i tanti tipi di dialogo, si esauriscono, scompaiono. Meglio, molto meglio, moralmente più che esteticamente, seguire la vicenda di “Io, Daniel Blake”, filmata dal vecchio Ken Loach, Palma d’Oro al Festival di Cannes. La storia.

Newcastle. Dan, un carpentiere alle soglie dei sessant’anni, dopo un infarto, finisce nell’inferno della burocrazia dello Stato inglese. Il dottore gli ha detto che non può lavorare, ma l’ufficio governativo gli ha sospeso l’indennità e per presentare ricorso deve fare una trafila grottesca, alle prese con moduli on line, funzionari ottusi e telefonate che non arrivano. Durante la trafila l’uomo incontra una single, Katie, madre di due figli, appena arrivata da Londra e in guai forse peggiori dei suoi (non riesce a trovare casa). Tra i due nasce una solidarietà e Dan, vedovo, diventa per loro una specie di padre adottivo. Una scena su tutte, forse la più bella del film, quando Katie non riesce a trattenere la fame e si reca a ritirare del cibo in un ‘food bank’, un piccolo supermercato gratuito per poveri, apre una scatola di fagioli e li divora davanti a tutti per poi cadere in preda alla più terrificante delle vergogne a causa del sua gesto disperato. Ma Loach ha un umanesimo’ di fondo, una fiducia nel prossimo nonostante tutto, una solidarietà di classe che ritroviamo in tutti i suoi film, da “Riff Raff” (1991) a “Piovono pietre” (1993). Dan aiuta Katie e i suoi figli a sistemarsi, si dimostra attento e disponibile e cerca come può di rendersi utile. L’affetto dimostrato gli viene ricambiato nel finale quando, ormai ridottosi ad abitare in un appartamento senza più mobili, riceve la visita della piccola Daisy la quale gli domanda: se tu hai aiutato noi, perché ora noi non possiamo aiutare te? Contribuisce in modo determinante alla riuscita del film l’interpretazione misurata, quasi sottotono, del protagonista che immediatamente conquista la simpatia del pubblico. Ma lui stesso dichiara, a un certo punto, che è solo un cittadino e come tale vuole essere trattato (fino a scriverlo su un muro di Newcastle, da cui la locandina del film): come tutti gli altri cittadini. Poi il finale, la fine: Dan, malato, è destinato a morire e la sua morte, per chi lo ha conosciuto magari attraverso le scritte murali, ha insegnato i suoi valori e ha fatto conoscere le difficoltà di chi deve sopportare l’abbandono dello Stato. Un film che quanto più è semplice (costruito con il suo compagno sceneggiatore di sempre, Paul Laverty) più lascia il segno: Ken Loach, ottantenne, ha ancora la freschezza artistica di un giovane.