La repubblica dei matti

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Esistono rivoluzionari chiacchieroni, esiste una retorica rivoluzionaria insopportabile, e ripetitiva, esistono idealisti da operetta e socialisti d’accatto. Una volta ogni trecento anni, invece, esiste un rivoluzionario autentico, esiste un’utopia rivoluzionaria praticabile, e praticata, esiste un idealismo magnifico, scintillante di un’umanità unica. Nel Novecento, in Europa Mediterranea, abbiamo salutato la presenza di un intellettuale rivoluzionario, di un coraggio visionario, e abbiamo apprezzato il lavoro d’avanguardia di tutta la sua équipe. Franco Basaglia è stato così leale ai suoi ideali e così radicale nella sua rivoluzione che ha finito per cambiare il panorama di tutte le nostre città, abbattendo le ultime mura moderne superstiti – quelle dei manicomi – e determinando un rinnovamento epocale nel lessico della nostra cultura: e quindi nei nostri pensieri. È stato idolatrato dai suoi sostenitori ed è stato fatto a pezzi dai suoi rivali, e dai suoi oppositori, per ragioni non sempre edificanti, non di rado stupidamente partigiane. Ha tirato dritto, obbedendo al suo demone, sempre spronato da un senso di predestinazione antichissimo, a quella che sentiva come una missione da compiere. Per raccontare cosa è stato e cosa ha rappresentato – qual è stata la portata della sua impresa, e della sua liberazione – abbiamo adesso a disposizione il buon saggio di uno storico inglese, John Foot, già docente di Storia Contemporanea Italiana all’University College di Londra, ora all’Università di Bristol. È lui l’autore del libro La repubblica dei matti..

Per raccontare questo libro mi piace partire dal fondo, da un aspetto che probabilmente oggi, da contemporaneo, riesco più chiaramente a riconoscere come unico, prova di una generosità così assoluta, e cristiana, da sconfinare nell’autodistruzione. In un suicidio altruistico, qualcosa del genere. John Foot scrive: “I manicomi italiani furono chiusi da chi ci lavorava: gente che aboliva, e per sempre, il proprio impiego. Nessuno, oggi, occupa i posti che furono di Basaglia, Giacanelli, Pirella e Casagrande negli anni Sessanta e Settanta: nessuno, oggi in Italia, fa il direttore di un ospedale psichiatrico. Il movimento agiva contro i propri interessi immediati, andando nella direzione opposta del clientelismo e del nepotismo. Fu la negazione di se stesso”.

Il movimento fu, infine, la negazione di se stesso. E finì per scrivere la storia dell’unica rivoluzione autentica della nostra disordinata, regressiva e caotica epoca: quella della chiusura dei manicomi. È forse questa la testimonianza più limpida della stupenda autodistruzione del movimento basagliano: della gratuità, della bellezza, della poeticità dell’impresa.

Il libro è strutturato in due parti di diseguale resa e consistenza: la prima è di singolare intelligenza e insolita chiarezza, ed è dedicata al luogo in cui ha avuto inizio la grande riforma basagliana: Gorizia. La seconda si chiama “La lunga marcia” ed è la storia della progressiva rivoluzione basagliana, e di quella che è stata la capitale della rivoluzione: Trieste. Se nella prima parte ci si concentra sull’istituzione negata, nella seconda si va a delineare l’istituzione disintegrata, senza dimenticare le tappe intermedie dell’esperienza basagliana e del collettivo goriziano, da Parma ad Arezzo, e si finisce per raccontare, con una sintesi forse eccessiva e in un capitolo soltanto, “mito e realtà” della Legge 180. Ma quella forse meritava un libro a parte, di eguale spessore. In appendice, nota bibliografica, buon apparato di note, robusto indice dei nomi.

 

Da: Il Ponte rosso n. 0, aprile 2015

  1. 9

Autore: Gianfranco Franchi