Tre giorni di questo gennaio

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Non che prima si morisse di noia, con le preoccupazioni della pandemia, coi colori continuamente cangianti delle nostre regioni, con le minacce di una crisi al buio che avrebbe dovuto affossare il Conte-bis, con la non infondata apprensione per come l’ex presidente degli Stati Uniti avrebbe lasciato, obtorto collo, la Casa Bianca. Però in tre giornate in qualche modo diversamente memorabili, da martedì 19 a giovedì 21 gennaio, ha ripreso una sua spettacolare vivacità il circo Barnum della politica, tanto nostrana che internazionale, per la rapida successione, in tre giorni soltanto, del dibattito al Senato con la fiducia al Governo italiano (martedì), della cerimonia di insediamento del nuovo Presidente degli USA (mercoledì), della ricorrenza dei cent’anni dalla scissione comunista al congresso di Livorno del Partito socialista (giovedì). Si tratta di tre eventi apparentemente distanti tra loro nello spazio o nel tempo, che tuttavia appaiono in qualche modo, sotto traccia, raccordati tra loro, se non altro perché possono indurre a una riflessione su quanto sia friabile la democrazia, soprattutto quando non si regga sulla condivisione di valori minimi di coesione sociale. O quando si posponga l’interesse collettivo a quello individuale di singoli o di fazioni politiche.

Ragionando all’indietro, iniziamo da Livorno. Il 21 gennaio 1921, in un clima che minacciava una guerra civile in Italia, Bordiga e i suoi, con Gramsci e il gruppo di Ordine nuovo, scelsero la scissione, pochi mesi prima che Mussolini diventasse capo del Governo e sostanzialmente padrone dell’Italia per un ventennio. Quella scissione non fu, ovviamente, l’unica causa della presa del potere da parte dei fascisti, ma potremo almeno dire che indebolire il Partito socialista non aiutò quanti intendevano opporsi a quell’epilogo così nefasto per il nostro Paese e non soltanto per esso? E davvero quell’errore politico – sebbene in seguito in parte compensato con la lotta di Liberazione, con la Costituzione e con molto altro – non suona come un monito a quanti, anche in queste ore, fanno leva sulle manchevolezze e i ritardi, veri o presunti, del Governo in carica per indebolirlo e indurlo alle dimissioni?

Con un salto di cent’anni e di oltre settemila chilometri, abbiamo assistito ieri – grazie alla televisione – all’insediamento del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Cerimonia del tutto particolare, per i limiti imposti dal contagio e per l’ingente schieramento di forze della Guardia nazionale. Con la memoria recente di quanto sulla medesima scalinata in cui si svolgeva il giuramento di Biden veniva perpetrato da orde di sediziosi che occuparono la sede del Congresso quindici giorni prima. Nel suo discorso, il neo-presidente ha fatto continuamente riferimento alla necessità di ricompattare il suo Paese dolorosamente lacerato e molti altri dettagli della cerimonia parlavano simbolicamente il medesimo linguaggio, dal viola indossato dalla vice-presidente (unione di blu e rosso, il colore dei due partiti contrapposti) all’enorme spilla appuntata sul vestito di Lady Gaga, una colomba della pace. Depurata di tutte le inevitabili “americanate”, anche la cronaca di quella cerimonia dovrebbe ben indicarci qualcosa in ordine all’esigenza di tutelare il bene prezioso della democrazia, messo a repentaglio prima di tutto dalla prepotenza e dalla demagogia del predecessore di Biden, più ancora che dai teppisti che hanno dato l’assalto al Parlamento del loro stesso Paese.

Infine, a Palazzo Madama, abbiamo assistito a un dibattito parlamentare e al voto che, di stretta misura, ha confermato – pro tempore – la fiducia al Governo, nonostante lo sfilarsi dalla maggioranza di un senatore che s’era arrogato il merito di farlo nascere, mentre, come un disco rotto, l’opposizione continua a reclamare elezioni anticipate (con questi chiari di luna e con l’impellenza di provvedimenti inderogabili per mettere al riparo quanto si può della disgraziata economia del Paese). Evidentemente, non riusciamo a imparare nulla, né da Washington né da Livorno.