La Miglior Vita di Tomizza

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di Alfredo Luzi

 

In La miglior vita ( Rizzoli, 1977) Tomizza adotta una strategia narrativa in parte diversa da quella che contraddistingue la Trilogia istriana. Se lo spazio geografico (l’Istria come terra di confine) e il tempo storico (le vicissitudini vissute in un succedersi di esodi imposti dalle vicende politiche internazionali) sono una costante spazio-temporale, cambia invece il punto di vista che è quello del narratore, partecipe della vicenda, concentrata su un solo personaggio, Martin Crusich, il sagrestano che ha avuto in eredità il mestiere dal padre, che intreccia la sua lunga esistenza con la vita dei parrocchiani di Radovani, dagli ultimi decenni dell’impero asburgico fino al 1975. La centralità dell’io narrante da una parte garantisce unità della narrazione, dall’altra si riverbera nella molteplice alterità dei numerosi soggetti con i quali entra in contatto, costruendo passo passo, attraverso le esperienze vissute, una coscienza dinamica della storia singola e collettiva.

Sicché il protagonista è nello stesso tempo testimone e interprete del chiuso e arcaico mondo in cui vive, costituito da etnie talvolta in conflitto tra loro talvolta riconciliate in una precaria armonia.

Su questa comunità si abbattono, turbando i lenti ritmi della microstoria, gli eventi drammatici della macrostoria, resi ancor più sconvolgenti dalle loro conseguenze su una terra di confine.

L’esergo del romanzo riassume emblematicamente il ruolo del narratore (“Ciò che ho visto e vissuto”) e si pone in simmetria con l’esergo dell’ultimo capitolo (“Ciò che ho annotato negli ultimi anni”), quando l’ormai vecchio sagrestano si limita alla trascrizione, su di un personale registro parrocchiale, delle morti di alcuni parrocchiani passati a “miglior vita” e del suo appressamento alla morte senza esercitare più, attraverso la scrittura, quella funzione di ermeneuta che ha svolto durante tutta la narrazione.

Di questo ruolo di scriba, che chiamerei gnoseologico, nel senso di produzione di conoscenza attraverso la parola scritta, di costruttore di storia unendo passato a presente, egli diventa consapevole verso la fine dei suoi giorni: “Prendevo familiarità con la scrittura assai ostica e con lo stile ora frettoloso ora ricercato dei parroci, che ne rispecchiavano il carattere. Anche dei loro scritti ricopiavo certe frasi, qualche volta soltanto un cognome, un soprannome, che mi lasciavano dentro un’eco sospesa, un po’ complice e un poco istigatrice. Si delineava sempre più prepotentemente un confronto con quanto avevano realmente visto questi occhi; e di quelle brevi note la mia esperienza diretta veniva a rappresentare il naturale seguito ma anche un parziale, forse arbitrario, completamento” (Fulvio Tomizza, La miglior vita, Rizzoli, Milano 1977, p. 259).

Non è dunque solo il mediatore tra i vari parroci che si succedono a Rodovani, ministri della religione cattolica ma spesso lontani dalla religiosità naturale, con residui pagani, della civiltà contadina insediata in quei luoghi, e gli abitanti, ma anche, nella sua qualità di sagrestano l’elemento di connessione tra sacro e profano, tra i riti immobili e distanti della liturgia, svolti in lingue morte o incomprensibili, e la vita vissuta degli individui e della collettività.

Martino segue quotidianamente lo svolgersi della vita della parrocchia che, in una società arcaica e contadina come quella istriana dell’interno, costituisce il centro propulsore di tutta l’attività della zona. Tuttavia, i fatti minuti di tutti i giorni e i grandi sconvolgenti avvenimenti storici di cui è osservatore e cronista lungo tutto l’arco della sua esistenza, dagli inizi del secolo, maturano in lui la coscienza di essere anche partecipe e ancor più mediatore tra la mentalità “superiore” dei vari parroci spesso intolleranti, che si susseguono nella canonica, e la concretezza irriducibile della sua gente. Grazie a questa presa di coscienza, che ha anche valore politico e sociale, può ergersi a testimone della storia e diventare “cantore” dell’epica popolare della sua “parrocchia”, sorta per volere di Venezia nel Seicento e ora rassegnata a perdere del tutto la propria identità.

Mi sembra evidente che la scelta della narrazione in prima persona, con la conseguente reductio ad unum della prospettiva sui personaggi e sulle vicende, abbia un carattere d’identificazione psicologica tra soggetto narrante e autobiografia dello scrittore che, in altre occasioni, facendo riferimento a personaggi della mitologia greca assurti ad archetipi dei drammi familiari, aveva riconosciuto che: “Altro non sono che un Edipo, un Oreste, forse capace di raccontarsi” (I rapporti colpevoli, Bompiani, 2000, p.271.), quasi a sottolineare la funzione conciliatoria dell’atto narrativo.

Questa urgenza di registrare i piccoli e grandi eventi che si succedono per circa un secolo nella comunità di confine attraverso la narrazione si presenta come un antidoto, magari parziale, alla deiezione della storia umana, in cui l’individuo, come direbbe Heidegger, è ‘gettato’ nel mondo ed è condannato all’inautenticità.

Sulla storia umana individuale e collettiva incombe, inesorabilmente, la realtà della morte. E la morte nel romanzo è un macrotema che strutturalmente sorregge tutta la scrittura del romanzo, antinomico a quello della vita ma con esso convive.

Alla sequenza del funerale del padre: “Pochi comparvero alla sua sepoltura, nessuno versò una lacrima, neppure mia madre costantemente sotto gli occhi del parroco per il quale la morte era un passaggio alla miglior vita” (pp. 17-18) segue la testimonianza di Martino sui seppellimenti dei malati di vaiolo che “facevano pensare a morti provvisorie” e per i quali “la morte non è uno strappo innaturale, e la miglior vita, assolutamente indispensabile, diventa ciò che questa vita non ha voluto loro concedere” (p. 91).

Ma la morte del figlio Antonio mina le certezze sulla trascendenza inculcate dalla fede cattolica e di fronte alla bara del figlio si convince che la morte è il trionfo del nulla: “stesi tra le sponde una bracciata di paglia. Ecco che cosa resta alla fine di tutto, paglia” /p. 174).

La descrizione della morte della moglie Palmira, colpita dalla epidemia di spagnola, è invece impostata sul motivo della opposizione caldo della vita/ freddo della morte e sul contatto fisico, corporeo: “Eravamo entrambi a letto febbricitanti e pareva che per me fosse venuta l’ora, tanto freddi sentivo i miei piedi sui suoi. Poi fu come le assorbissi lentamente, e mio malgrado, ogni calore, mentre in lei si andava maturando la coscienza della morte” (p.157).

Tema che torna nell’ultima pagina, quando Martino, nel suo appressamento alla morte, prende congedo dal lettore esprimendo il suo dubbio sui fondamenti della trascendenza predicati dalla religione cattolica: “Oggi 23 gennaio 1975 tremo in tutto il corpo, nessun fuoco riesce a scaldarmi. […] Da un sole che non vedevo, sul campanile, sulla chiesa e sul muro bianco di cinta cadeva una luce appena dorata. Dentro a questa luce tutte le cose liberate della loro pesantezza, quasi svuotate da ogni materialità, parevano mescolarsi e sollevarsi insieme. Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spalanca la miglior vita?

Questo non sapevo, che il mondo muore a ogni morte di un uomo” (p. 277).

Un brano in cui si può leggere una suggestione della novella pirandelliana Di sera, un geranio e nel contempo forse un’anticipazione del pensiero di Derrida sulla morte come “fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita” (Jacques Derrida, Ogni volta unica la fine del mondo, Jaca Book, Milano 2005, p.11)

Nell’arco della sua lunga vita, Martino collabora con sette diversi parroci, conoscendone debolezze e virtù ( in verità più le prime che le seconde ): chi è ossessionato da una ottusa sessuofobia; chi è intollerante verso i costumi della comunità contadina; chi condiziona il suo ministero sacerdotale al pregiudizio ideologico e nazionalistico; chi cede alla concupiscenza della carne.

La raccomandazione a Martino del padre in punto di morte: (“ «Figlio, non abbandonare mai i preti» mi disse con convinzione. «Loro sanno tutto e possono tutto»” – p. 17) è stata resa vana dagli sconvolgimenti fisici e psicologici sofferti dalla comunità che dopo la morte di Don Miro sarà privata del presidio sociale e morale della parrocchia: “Non avremmo avuto più preti, né vivi né morti” (p. 256).

E intanto sulle pagine del romanzo si accumula la distopia della storia drammatica del Novecento: due guerre mondiali, le diaspore da un paese all’altro, la ridefinizione dei confini nazionali, il fascismo e la resistenza, gli italiani e gli slavi di Tito, epidemie, terremoti.

L’esercizio della violenza disintegra, anche attraverso la babele linguistica, il senso della pacifica convivenza tra etnie diverse. Tomizza usa la metafora del metallo delle armi per denunciare il sonno della ragione, la perdita del valore della vita: “Ma adesso era il ferro a dominare su tutto” (p. 161).

Come in altre sue opere, anche in questa è presente un sistema antinomico in cui si polarizzano bene e male, umano e divino, io e collettività. Ma è nel rapporto dialettico con questi archetipi che si realizza la coscienza individuale del sé, dell’identità relazionale del soggetto, come insegna Jung. Nell’incontro con gli altri Martino subisce una continua trasformazione della sua personalità ma nello stesso tempo incide su quella dei suoi compaesani. Nasce da qui la sua capacità di giudizio, la sua attitudine riflessiva nei confronti della realtà dei singoli avvenimenti.

Per quanto riguarda la religiosità, ad esempio, il narratore-autore oppone a un’idea trascendentale della divinità perpetuata dalla chiusa liturgia ecclesiastica, fatta di parole lontane e di gesti ieratici, una visione immanente dell’essere supremo che si manifesta mediante la forza ontogenetica della natura.

Non i sacerdoti, ma l’umile sagrestano realizza il compito di colmare le scissure tra sacro e profano, attraverso quelle che Mircea Eliade ha definito le ‘ierofanie’, le immagini della natura e dell’umano nelle quali alberga il ‘totalmente Altro’, divenendo manifestazioni del sacro.(Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 2006).

L’uomo Tomizza ha dichiarato il suo rammarico per “non riuscire ad avere fede in un’entità superiore che ci sovrasta” ma ha cercato l’appercezione del divino facendo riferimento alla natura come spazio diafanico, che lascia cioè trasparire quel tanto di soprannaturale presente dietro la sua dimensione materica.

In Le mie estati letterarie, una raccolta di scritti autobiografici pubblicata da Marsilio nel 2009, egli ha affermato: “La contemplazione della natura ci preserva dallo scatenamento degli impulsi egoistici e a me offre l’occasione di un rapporto con Dio. Molte volte nel silenzio ho vissuto istanti in cui ho avvertito un brivido d’eternità”. È la stessa attitudine psicologica presente in Martino che soffre quando la natura perde la sua funzione euforica, in occasione di un suo litigio con il parroco Arcipresso: “La campagna non aveva più un colore né un suono con cui richiamarmi a sé; Dio e i santi si erano tirati in disparte.” (p. 112).

Ma è felice quando, ripetendo la ritualità pagana degli ambarvalia con i quali i Romani rendevano omaggio nel mese d’aprile alla rinascita della natura, accompagna Don Stipe nelle cerimonie campestri delle rogazioni.

Questa sequenza è emblematica di come la natura, resa sacra, letteralmente dunque ‘sacrificata’ tramite la benedizione dell’acqua santa, potesse essere l’elemento rivelatore della presenza di Dio sulla terra: “Andavamo a riconoscere la primavera portandovi le sacre immagini perché ogni tanto godessero anche loro dei frutti che puntualmente ci donavano senza neppure vederli. […] Per i viottoli solo durante i funerali passava tanta gente ordinata in fila dietro al sacerdote. Questo corteo era proprio l’opposto: andava contro la morte e tutto quanto poteva causarla, malattia, carestia, guerra, pestilenza, incendi e allagamenti. […]La religione pareva aver rinunciato alla propria funzione consolatoria per farsi motivo di abbondanza, prosperità e persino di allegria […].I contadini volevano che Dio fosse maggiormente, quasi fisicamente a contatto coi luoghi dove urgeva la sua presenza, non se ne stesse in chiesa ad attendere che lo si venisse a supplicare, magari uno per volta” (p. 38).

 

Nel romanzo, così fitto di personaggi e di eventi, Tomizza dissemina le tracce di un interrogativo che interpella la funzione della parola e della letteratura in rapporto alla storia e alla religione.

Nella seconda pagina, a conferma del processo identificativo autore-io narrante, Martino affronta il problema della dicotomia teoretica verità/ menzogna attraverso la quale si evidenzia il contrasto etico tra bene e male: “Ancor oggi m’invitano a mentire, non sospettando che proprio in me che in questi luoghi ho vissuto una lunga vita, ora spremendo nel cervello il bene, ora mungendo come capita il male, la certezza del concreto, del solare, è assoluta” (p. 8).

Nel capitolo quinto Martino-Tomizza nelle sue riflessioni cita la Bibbia, quando afferma: “Le mie mani tornarono a essere immonde, la lingua blasfema” (p. 109). È il versetto 17 di Proverbi in cui si elencano le cose odiate da Dio; tra queste “lo sguardo altero, la lingua bugiarda; le mani che versano sangue innocente”.

La sua saggezza di uomo semplice, ma sempre in contatto nella pratica giornaliera con i riti del sacro, lo spinge a non accettare l’atteggiamento fideistico, distaccato dalla realtà, di Don Angelo: “Gli bastava trovarsi nel vero; e la verità era contenuta esclusivamente nel messale e nel breviario, i due soli libri che lo vidi sfogliare (p. 113)

E a dubitare nel contempo dell’arrivo dei titini come uno dei tanti mutamenti di regime di breve durata perché “erano giunti per sommuovere e ribaltare lo stesso vecchio principio del bene e del male” (p. 182).

Attraverso l’esercizio del dubbio e l’insistenza su una pratica religiosa calata nell’esistenza quotidiana il protagonista ci lascia un messaggio di forte richiamo all’etica della responsabilità individuale e dell’impegno collettivo come portatori di pace.

Credo che Tomizza, e soprattutto in questo romanzo, avrebbe potuto condividere l’affermazione del grande storico delle religioni e sociologo Emile Durkeim: “Abbiamo mostrato del resto che non c’è morale che non sia intrisa di religiosità. Persino per lo spirito laico il Dovere, l’imperativo morale è cosa augusta e sacra, mentre la ragione, che dell’agire morale è l’ausiliaria indispensabile, ispira naturalmente sentimenti analoghi.” (Emile Durkeim, Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali, ETS, Pisa 2009, p.71).