Una passeggiata montaliana

Omaggio al poeta nel cimitero di San Felice a Ema presso Firenze

di Alberto Brambilla

 

In questi giorni d’estate, Firenze è diventata insopportabile. Una marea di turisti ha invaso le strade del centro ormai trasformate in una specie di suk globalizzato. Il caldo e l’afa non aiutano a rendere più gradevole la visita ai monumenti, come sarebbe doveroso fare. Meglio fuggire in periferia, questa volta in direzione Galluzzo. Raggiunta in autobus la Piazza Acciaiuoli mi addentro nel piccolo mercato che offre un po’ di tutto. Qui non c’è frenesia né rumore, i turisti sono rari, come si capisce dalla parlata toscana e dalle persone che si salutano come vecchi conoscenti. Sono tentato di farmi preparare un panino con una soppressata di cinta senese (quando mai mi capiterà un’altra occasione?), in fondo anche questa è cultura. Seduto su di una panchina, protetta dalla frescura di un albero generoso, addento il gustoso panino e bevo una birretta gelata.

Così rifocillato posso raggiungere a piedi, con tutta calma, la frazione di San Felice a Ema, ossia collocata vicino al fiume Ema, ricordato anche da Dante (un poco distante da qui, Ponte a Ema è nato il celeberrimo ciclista Gino Bartali). La strada è lunga e diritta, protetta ai lati da file di alti alberi ombrosi che proteggono dal sole accecante. Chiedo a due passanti di quali specie siano le grandi piante, ma nessuno sa rispondere. Peccato. Mai chiedere a chi ha meno di sessant’anni perché l’ignoranza botanica è diffusa, persino nella sapiente e in fondo ancora agricola Toscana. Rare sono le automobili, e tuttavia i marciapiedi sono stretti, a volte ostacolati dai rami che sporgono dai giardini delle case allineate lungo viale. Dopo circa un chilometro, la strada incomincia a salire e sfocia in una brusca svolta a sinistra. Dopo pochi passi si incontra la mole della chiesa romanica di  San Felice che impone una sosta. A dire il vero, se si esclude la bella facciata e il campanile (in restauro) e l’interno mi pare di poco interesse. Resto invece incantato dall’antica bellezza d’una vecchia porta lì a fianco; è chiusa e tuttavia invita ad attraversarla, almeno con il pensiero. Ancora più affascinante è il viuzzo che si apre di fronte oltre la strada, che richiama non pochi versi di Ossi di seppia. Se la mia meta è la tomba di Montale, questi incroci di arte e natura ne costituiscono una perfetta introduzione.

Entro nel cimitero collocato sul lato sinistro della chiesa. Purtroppo non c’è alcuna indicazione (almeno io non l’ho vista) della tomba del Premio Nobel Montale e tanto meno di altri uomini illustri qui sepolti come il pittore Plinio Novellini e un’artista a tutto tondo come Fausto Melotti. Chiedo a un signore qualche ragguaglio sul poeta, ma la spiegazione risulta insufficiente  perché il camposanto si estende in diverse sezioni che non riesco a decifrare. Mi affido a una signora bionda che incontro poco dopo e lei con naturalezza mi indica il loculo (collocato a pochi metri dalla mia posizione), che non avevo notato. Ciò forse significa che i poeti sono tra di noi ma non ce ne accorgiamo. Tale è la massima che mi è venuta in mente per giustificare la mia disattenzione. In effetti la spiegazione è più prosaica: il loculo che indica Eugenio Montale e la moglie Drusilla Tanzi è modesto e collocato in basso, assolutamente identico agli altri e dunque non riconoscibile.

Nessun monumento per il poeta che detestava la retorica; solo una lastra di marmo, con le sole indicazioni biografiche di nascita e morte. Chissà cosa ne avrebbe pensato Montale che in fondo tanto modesto non era, nonostante le molte dichiarazioni contrarie. Ho scattato una semplice foto con il cellulare, tanto per ricordare questo incontro da tempo cercato e ora finalmente avvenuto. Confesso che mi aspettavo qualcosa di diverso e di distintivo rispetto agli altri defunti. È vero che la morte livella, ma è altrettanto vero – come sosteneva Pasolini – che è paradossalmente solo la morte a dare il significato ultimo alla vita. Cerco un ritaglio d’ombra per  riflettere ed osservare l’ultima dimora dei coniugi Montale. Mi accorgo che la lapide, collocata a livello del terreno, è ornata di piante grasse che non hanno bisogno di cure particolari e possono sopportare ogni variazione climatica. Il resto sono fiori di plastica piuttosto consunti, che appaiono così assurdi in questa tarda e afosa mattinata. In tale modestissimo contesto spicca la presenza, altamente simbolica di due limoni che il caldo di questi giorni ha però reso più simili a dei kiwi. Li prendo in mano, li soppeso e confermo che si tratta di vecchi limoni che hanno però perso il colore, il profumo e persino la consistenza originaria. Anche in questo caso si potrebbe divagare sul significato simbolico dei componenti di questa atipica ‘natura morta’ dedicata a un poeta altrettanto morto. Morto eppure nonostante tutto così vivo da spingermi fin lì per rendergli un sincero omaggio. Riguardo ancora la curiosa e artificiale natura morta collocata da qualche pietoso visitatore. Per inconsci sincronismi affiorano dal ricordo e scorrono dei quadri di un pittore (e scrittore di genio) Filippo De Pisis, che fu amico di Montale. In particolare mi è cara un’opera intitolata Tele e pennelli, conservata al Museo del Novecento di Firenze, che ho avuto occasione i rivedere pochi giorni fa. Oltre agli strumenti tipici di un pittore, nella tela sono presenti anche dei libri, quasi a testimoniare l’unità di due linguaggi. Se infatti De Pisis si è provato nella scrittura, con risultati ragguardevoli, anche Montale si è impegnato nella pittura e nel disegno. Di solito componeva quadri di piccole dimensioni che spesso regalava agli amici. Come supporto utilizzava quello che gli capitava per mano, carte da pacco, cartoni e persino pacchetti di sigarette, menù o conti del ristorante. Allo stesso modo la tecnica adottata era la più libera e non di rado dipendeva dal materiale e dal pigmento più occasionale che l’esistenza quotidiana gli offriva: the, caffè, denitrifico, rossetti, fibre vegetali e così via. Pur essendo sostanzialmente un pittore figurativo, non disdegnava di trasfigurare la realtà creando atmosfere particolari, quasi metafisiche, mescolando senza gerarchie l’alto e il basso. I risultati sono interessanti e mai banali. Non sono in grado di misurare quale fosse il rapporto tra l’artista e il poeta; vero è che nella traiettoria di Montale la lingua da preziosa e ricercata si fa via via più comune e logora, con intendimenti spesso ironici e polemici, ma anche con una straordinaria (perché comunque vigilata) naturalezza. Si possono dunque ritrovare analogie tra i due linguaggi praticati da Montale. Così pensavo guardando quel loculo adornato di fiori artificiali e piante grasse, senza dimenticare i due limoni diventati qualcos’altro.

 

La tomba