Le immagini del lavoro

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Uno strumento culturale che affianchi ed integri attraverso le immagini gli studi di archeologia industriale, perché non venga perduta la memoria del lavoro di fabbrica

di Walter Chiereghin

 

Umberto Laureni, ingegnere di professione, fotografo per passione, esperto di infortunistica sul lavoro, perito di diversi tribunali per cause che riguardano i danni dovuti all’amianto o ad incidenti sul lavoro. è stato inoltre assessore comunale all’Ambiente durante l’amministrazione di Roberto Cosolini. Ci lega un’amicizia consolidata da molti anni e mai più avrei immaginato che per intervistarlo avrei dovuto ricorrere al telefono e alla posta elettronica, anziché farlo stando seduti attorno a un tavolo, come decine di volte era in precedenza successo, ma tra gli effetti della pandemia è anche questo distanziamento tra le persone che è suggerito dalla prudenza e dal rispetto reciproco per la salute e l’integrità fisica dell’altro.

 

Devo dirti che mi ha incuriosito il saperti impegnato in un convegno organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici della nostra Università lo scorso 5 dicembre. Che ci faceva un ingegnere tra i relatori?

Non si è trattato di un convegno, ma della conferenza di presentazione del Master di primo livello in “Archivi fotografici: digitalizzazione, catalogazione, valorizzazione”, che l’Università degli Studi di Trieste ha attivato per l’anno accademico 2021-2022, su proposta del Dipartimento di Studi Umanistici, con il sostegno della Soprintendenza archivistica del FVG, dell’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale e del Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia. Sono stato onorato di

aprire la conferenza con un intervento dal titolo “Per un archivio della memoria: foto del lavoro a Trieste”.

Parlami di questa iniziativa dell’Università.

Il Master è dedicato (ti sto citando dalla presentazione) alla conoscenza, alla creazione, all’utilizzo e allo sviluppo degli archivi fotografici, visti sia come Beni Culturali nell’accezione giuridica del termine («Testimonianza materiale avente valore di civiltà») sia come strumento di ricerca e oggetto di valorizzazione. In questa logica, gli insegnamenti sono modulati per favorire l’acquisizione, il perfezionamento e l’aggiornamento delle competenze professionali indispensabili per lo svolgimento di tutte le attività legate alla gestione delle raccolte fotografiche. La lettura del programma, sopratutto per chi ama la fotografia, è stimolante. Diviso per aree, esso si apre con quella storico-critica, potremmo dire tradizionale e necessariamente propedeutica. Alla storia della fotografia si affiancano capitoli specifici, dedicati alle tecniche fotografiche di architettura, di etnografia, di paesaggio, alla teoria e al linguaggio del fotogiornalismo, al collegamento tra cinema e fotografia. alle fonti fotografiche nella ricerca storica…. Non mancano nicchie quali “La cartolina come costruzione di immaginari visivi”, “Le fonti fotografiche nella storia del teatro” ed “Il rapporto tra pittura e fotografia attraverso gli archivi degli artisti”.

Segue, per logica, l’area giuridica, che tratta di diritto della fotografia e della proprietà intellettuale, di diritti d’autore e di tutela del materiale fotografico, fino alle problematiche collegate all’utilizzo delle immagini sulle piattaforme social. Certamente stimolanti si presentano i titoli “Elementi di diritto del lavoro per gli operatori culturali” e “Diritto comparato a tutela del patrimonio culturale”.

Non si tratterà di tematiche un po’ astratte, teoriche, con scarsi contenuti riguardo alla pragmatica del lavoro necessario per dar corpo alle materie cui hai accennato?

Non credo, fammi concludere: esiste una terza area, è quella tecnica, vero cuore del Master, che ha l’obiettivo di sviluppare competenze specifiche nella strutturazione e nella gestione degli archivi fotografici, con una logica che partendo dalla identificazione del materiale “grezzo” arrivi alla  sua gestione in termini appunto di digitalizzazione, catalogazione, valorizzazione. I profili professionali che il Master mira a preparare vanno quindi messi in relazione sia a musei, archivi specifici, enti territoriali legati al settore pubblico che a realtà legate a quello privato (fototeche, archivi di aziende, collezioni familiari, archivi d’artista). Infine, una quarta area, quella dei “case studies”, dedicata all’esame di realtà già esistenti quali archivi, fondi fotografici, collezioni, fototeche. Tra gli altri, mi sembrano importanti due argomenti. In primo luogo l’attenzione dedicata al rapporto tra fotografia, gallerie d’arte e mercato, intendendosi credo spezzare una lancia a favore della fotografia come forma d’arte di pari dignità delle altre. Ed infine la trattazione del tema “Archivi fotografici familiari”.

Tornando alla conferenza di presentazione, che ho aperto con un intervento dal titolo “Per un archivio della memoria: foto del lavoro a Trieste”.

Ecco, ora mi è chiaro: sei stato invitato ad intervenire come fotografo, non come ingegnere.

In un certo senso, ma forse è opportuna una breve spiegazione, a partire dalla mia storia lavorativa. Come sai, ho sempre lavorato nel Servizio di Medicina del Lavoro (SML) dell’ASS di Trieste, il cui compito statutario era quello di garantire l’igiene e la sicurezza negli ambienti di lavoro e di svolgere un’attività di indagine per conto della Magistratura nel caso di infortuni o malattie professionali. Un necessario supporto del lavoro era la fotografia: serviva per completare una relazione di sopralluogo, corredava le indagini su un incidente lavorativo, aiutava i medici a ricostruire la storia lavorativa di un lavoratore a fronte di un sospetto di malattia professionale.

Le fotografie che producevi corredavano le relazioni che stilavi, se ho ben capito?

Certo. Le immagini fotografiche analogiche, negli anni Ottanta e Novanta, avevano quella patina di assoluta oggettività, e venivano considerate prova inoppugnabile. Su questa oggettività oggi, nel regno del digitate, potremmo discutere, ma questa è tutta un’altra storia. Quello che conta è che dal 1980 al 2005 questa mia attività ha prodotto una raccolta, certo disordinata (è un eufemismo) di migliaia di immagini degli ambienti di lavoro della provincia di Trieste, assieme ad alcune riprese cinematografiche. Rappresentano ambienti, cicli lavorativi, o singole lavorazioni di cui avevamo evidenziato carenze,  imponendo modifiche e miglioramenti. Oppure documentavano lo stato dei luoghi e di ogni altro aspetto utile nel portare avanti l’inchiesta per una morte sul lavoro; o, per esempio, lo stato di un rivestimento in amianto per motivarne la bonifica o la rimozione.

Puoi darci un’idea del valore documentario di queste immagini?

Le immagini diventano particolarmente preziose quando l’attività produttiva documentata cesserà di operare. In questo caso resta il contenitore muto e deserto, le cui immagini stridono con quelle di quando vi si svolgeva la piena attività. Il suo destino sarà una lunga agonia, oppure subirà l’intervento rapido di demolizione con la dinamite. In entrambi i casi quello che rimane sono solo le foto, dai vecchi telai del marmo ad Aurisina, alle officine dell’Arsenale Triestina San Marco, dalla demolizione della raffineria Aquila-Total di Muggia e del parco serbatoi in valle delle Noghere, a quella recente dell’Area a caldo della ferriera. Cito quelle, di particolare effetto, che documentano al San Marco una attività di chirurgia navale, con la riduzione di 60 metri della lunghezza di una superpetroliera dell’AGIP,  inutilmente grande dopo la riapertura del canale di Suez.

Anche a giudicare dalle poche fotografie che mi hai fatto vedere, direi che raccoglierle in un archivio ordinato potrebbe costituire un importante presupposto per conservare memorie altrimenti destinate a sfarinarsi rapidamente…

Sicuro. Ma le immagini resteranno mute, senza una didascalia che le descriva e le collochi nello spazio e nel tempo. Nel caso specifico serve la mia memoria e quella degli operai, dei tecnici e dei dirigenti (se ce ne sono ancora) che in quell’ambiente hanno lavorato.

Prima che si aprisse questa interessante prospettiva del Master universitario, non avevi cercato di sollecitare qualche ente, investendolo dei problemi di organizzazione di uno specifico archivio di immagini?

La consapevolezza di quella che sarebbe stata la sorte delle foto mi aveva spinto in questi anni a ricercare un interlocutore per tentare di realizzare quello che presuntuosamente avevo ipotizzato essere il primo nucleo di un archivio di foto del lavoro a Trieste. In questo ero confortato dalla certezza che, una volta avviata l’iniziativa, molti altri si sarebbero accodati, rendendo disponibili immagini anche più  importanti.

Muggia ha dedicato recentemente una mostra all’evoluzione della raffineria Aquila, molti ex lavoratori stanno cercando cimeli dell’area a caldo della ferriera per realizzare un museo. Uno di questi mi ha inviato foto della costruzione (nel 1969) di uno degli altiforni di cui io ho documentato la vita e la demolizione. Ci sono libri dedicati a singole fabbriche che ne ricostruiscono l’evoluzione (Ferriera, Cantiere San Marco, Fabbrica Macchine, Aquila) anche con un ricco corredo fotografico.

Ma la mia proposta non sembrava sollevare interesse, nonostante l’apprezzamento per il significato ed il livello delle immagini. Mi rendevo certo conto delle difficoltà del progetto, tuttavia ne avevo tratto la conferma che in Italia e a Trieste in particolare mancasse una cultura della conservazione della memoria.

Per questo motivo la presa d’atto dell’avvio del Master mi ha spinto a ricercare quell’interesse che da altre parti era mancato. La prima risposta,  dopo l’invio di un demo, è stata il mio coinvolgimento nella presentazione.

E ho potuto parlare e mettere finalmente assieme sotto la voce “Archivio” due termini che mi sono cari, la memoria e il lavoro.

 

Superpetroliera russa in bacino

Arsenale Triestino San Marco