AUSTRALIA 2: WILCANNIA – PORT AUGUSTA

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L’outback si apre nel suo rossore infinito di terra densa e spazio. Sulla strada, le carcasse dei canguri massacrati dai road trains marciscono al sole sbattuto sull’asfalto. La Mitchell highway è piena di sangue che ancora trattiene le urla di dolore degli animali uccisi uno dopo l’altro. Enormi pozze rosse e secche a loro memoria. Fa caldo. Oltre i vetri, l’Australia, quella che volevo, quella che fa quasi paura. Il traffico si è fatto rado, sfilacciato. Si guida da soli con se stessi, si sente la pressione di se stessi.

Ho passato Nyngan, il centro geografico del New South Wales. Ho fatto appena 133 chilometri da Dubbo e già mi sembra di essere in viaggio da giornate intere. Il tempo si distende man mano che ci si dirige verso l’interno, fra un secondo e l’altro c’è più spazio, più lentezza.

Cobar è tutto e niente. Le miniere di rame della CSA Mine Company, che rubano alla terra 900.000 tonnellate di minerale all’anno, mi pesano sul petto e non riesco a buttare giù i panini che cerco di mangiare.

Broken Hill è troppo lontana e sono stanco e sudato e vaffanculo anche queste strade che non finiscono più. Decido di fermarmi a Wilcannia, che hanno avuto il coraggio di chiamare “The queen city of the west” quando l’hanno fondata, nel 1864. Ma di regale non le è rimasto niente e forse l’aria signorile non ce l’ha mai avuta. Era solo una speranza di chi si è fermato qui quando c’era solo terra e che poi, dopo aver tirato su quattro case, se n’è andato di corsa. Il motel è troppo caro, e non si trova il tipo che lo gestisce. Mi hanno detto che fa tre lavori. La signora che me lo ha detto ha visto sulla mia faccia qualcosa di interrogativo ed ha aggiunto che tutti qui fanno due o tre lavori per passare la giornata e per guadagnare di più. La saluto, ma non mi ha rasserenato per niente. Continuo a chiedermi perché poi debbano fare più soldi. Forse per andarsene, ma la signora mi sembrava tranquilla, quasi orgogliosa di vivere qui. Penso che fare due o tre lavori sia l’unico antidoto a disposizione contro la morte per noia o per disidratazione. Il sorriso che reggeva la faccia della signora, però, sembrava sincero, per niente di cortesia, era una quasi felicità.

Faccio benzina mentre tre bambine aborigene curiosano nella mia vita con domande ingenue ed insistenti, traballando e ridendo nei loro vestiti colorati e sporchi. Hanno gli occhi guizzanti e attenti, classici dei bambini, ma con qualcosa di più, come se al di là di essi ci fosse un fondo di saggezza, una conoscenza che non sanno ancora di possedere. È il bagliore della loro seconda anima, quelle immortale, la scheggia di vita dell’Antenato che le ha legate per sempre a esso e all’eternità del Tempo del Sogno. L’aborigeno viene concepito due volte, ma la prima, quella biologica, è quasi niente, da essa derivano solo il corpo e l’anima mortale. Il fatto determinante, invece, è il concepimento spirituale, quello in cui l’Antenato si incarna nel corpo della donna incinta, evento che assocerà per sempre il nascituro alla sua storia ancestrale, al suo totem, e così, indissolubilmente, al tempo senza fine della Creazione. Ma in qualche modo loro sono fortunate, possono starsene qui a ciondolare per le strade e ridere e giocare senza avere l’angoscia di essere prese e portate via, “assimilate”, come è accaduto ai bambini a cui oggi si ci riferisce come alle “stolen generations”. Dal 1911 al 1970, circa 100.000 bambini, la maggior parte di discendenza mista e sotto i cinque anni, sono stati deportati, segregati, ripuliti, rivestiti e riprogrammati per l’inserimento nella società dei bianchi. Separati con la forza dalle famiglie, dalla loro terra, dalla loro cultura, dalla loro lingua. Bambini con la bocca tappata e il nome di Dio sulle labbra scure, coperti di polvere e di insulti, chiusi in istituti di raccolta e indottrinamento dove, prima di essere spediti in famiglie adottive, subivano violenze ed abusi di ogni genere. Bambini che hanno pianto nelle notti di paura e stupore, costretti a dimenticare la loro identità, il loro colore, la loro integrità, per poi finire a lavare piatti e pulire culi di vecchi inglesi dalla pelle chiara. Servire per non morire. Servire per scomparire. Bambini che poi crescono e non si riconoscono più in giacca e cravatta o con lunghe gonne dai colori tenui. Bambini di cui il mondo non ha saputo niente fino agli inizi degli anni Novanta quando il governo di Paul Keating ha lanciato l’inchiesta Bringing them home il cui rapporto, reso pubblico nell’aprile del 1997, ha portato alla luce la vera entità del genocidio culturale perpetrato nei confronti di una razza nella piena volontà di farla scomparire.

Non so se queste ragazzine verranno in qualche modo “rubate” o se finiranno urlanti e ubriache sulle strade di Alice Springs o di Darwin, e non mi interessa saperlo. Ma voglio pensare che fino ad ora si sono salvate e che continueranno a farlo. So solo che adesso sono contente e libere e che specialmente una di loro, la più intraprendente del gruppo, è molto carina, ha lunghi riccioli neri che le accarezzano la pelle liscia del viso, e diventerà una bella donna.

 

Broken Hill rompe la monotonia del paesaggio. È larga, non grande, ma larga. Però c’è tutto, e sembra di tornare alla vita. Fa piacere anche sentire la musica di un negozio di dischi sparata sulla strada, che di solito mi fa incazzare, ma qui taglia il silenzio in modo pulito, fa stare bene.

Il caldo è atroce e la luce chiara asciuga gli occhi facendoli lacrimare continuamente. L’aria è talmente secca che la lingua si impasta e fa fatica a muoversi.

Mi sistemo allo YHA, costa poco e ho bisogno di un letto dopo la notte di ieri. Appena entro c’è questo cartello: “Questo ostello YHA è parte della grande catena che copre tutto il mondo. È aperto a tutti i viaggiatori, senza discriminazione di razza, religione o credo politico. È sufficiente presentare una valida tessera di iscrizione alla YHA”. Io la tessera non ce l’ho e probabilmente questa è l’unica ragione per cui è tollerata la discriminazione. Comunque, i dollari messi in mano al tipo della reception valgono più di qualunque tessera, anche se la discriminazione c’è, perché la stanza mi costa 5 dollari in più del prezzo normale.

L’ostello è vuoto e sa di pulito, di disinfettante. Mi chiudo nella stanza, metto il condizionatore al massimo e mi distendo sul letto sfondato.

Mi sveglio di colpo con la sensazione di essere in ritardo, ma dura un secondo, poi capisco dove sono e che l’unico ritardo che ho è quello con la mia vita, ma non posso più farci niente, è un ritardo troppo grande.

Avevo deciso di andare a Silverton, a 25 chilometri da qui, e ci andrò, nonostante il caldo. Quando esco dall’ostello, il sole sta ancora infilzando ogni cosa con precisione e metodo. La macchina è un forno. Il volante ustiona le mani e devo avvolgerci una maglietta bagnata per riuscire a guidare.

La ghost town non è niente di speciale e il Silverton Hotel rende molto di più nelle fotografie. Visto così, da vicino, sembra quasi una ricostruzione per turisti, un pezzo di scenografia abbandonato. Parcheggio la macchina e mi arrampico su una collina di terra secca e pietre rosse, con fatica. Lassù, un’installazione di dodici sculture in circolo nel vento pieno di calore, e nulla, attorno. Solo aria e foschia tra le rocce modellate in forme e simboli di mondi diversi nell’orizzonte che non si chiude. C’è la sensazione di trovarsi in mezzo a qualche luogo sacro, magico. Si avverte vibrare un’energia senza nome che esce dalle pietre rigate a mano. Broken Hill, osservata da qui, è un mare di tetti di lamiera. Onde di metallo mosse dal calore e fatte fiammeggiare dal sole che tra poco verrà soffocato dalle nuvole grigie che si rotolano addosso l’una sull’altra in un piccolo spazio di cielo, a nord. Ma non pioverà, non piove da troppo tempo e ovunque si legge: “We are experiencing an estreme drought condition, please conserve water at all time”.

Ritorno all’ostello guidando lentamente con il sole che già se n’è andato, mentre un leggero tremolio mi agita le gambe. Non so se quella strana energia mi sia entrata dentro, o se è solo lo sforzo dell’arrampicata.

La città è protetta da un’alta collina puntinata di piccole luci con il ventre sfatto e quasi prosciugato da più di 100 anni di estrazione intensiva e distruttiva. Anni e anni a scavare buchi e tunnel e passaggi segreti per portare all’aria zinco e argento e piombo, per vantarsi nei pub o per morire soffocati e malati e incazzati. La miniera, fortuna della città, Line of Lode, a trascinare ricchezza e disastri. Nel 1919, con uno sciopero, i minatori di Broken Hill conquistarono condizioni di lavoro che nel resto del mondo sarebbero diventate realtà solo mezzo secolo dopo: settimana di 35 ore lavorative; turni di notte annullati e molte altre misure di sicurezza. Negli anni Ottanta le compagnie minerarie iniziarono a sgretolare una ad una queste conquiste e la città lentamente si svuotò, i giovani se ne andarono e la polvere ha iniziato a riprendersi la città, seppellendo case, vite e sogni.

 

Port Augusta. Ho preso un In-site van al Shoreline Camping, per stare un po’ comodo e perché c’è un vento freddo e in macchina mi sarei gelato. Ma anche se cerco di fare il signore o almeno non il povero, sicuramente mangio da poveraccio: il solito panino con formaggio e pomodoro. Le birre, per fortuna, lavano via tutto, anche se c’è sempre la solita angoscia che è lì impastata con il mio sangue e che non se ne va.

Port Augusta, Crossroads of Australia. Non so quante volte sono già passato di qui in fughe che avevano altri motivi, altri spessori, altre menzogne. Da quando sono partito ho percorso più di 1500 chilometri, e sono stanco. Strada lunga, anche oggi. Dopo Broken Hill la desolazione è quasi eccessiva. Peterborough è un villaggio che puzza d’abbandono nei negozi lasciati sprangati ad ammuffire e muri che cadono in rovina di vite che sono fuggite e memorie di treni e ferrovia e “plenty to see and to do”. Vecchi edifici ed un ostello YMCA di pietra, solo ricordo di un passato di gente che veniva e andava, il manifesto della tristezza di un paese che scomparirà nei prossimi 10 anni. Solo vecchi in giro e ragazzini che calpestano la strada principale di poche case e cannoni in mostra lucidati e dipinti con cura e una lasta di pietra “killed in action” con nomi di morti e di guerre ormai finite. E qualche ragazzina, anche bella. A Peterborough, con 150 mila dollari, puoi comprare un edificio intero per impazzire in cento stanze dai soffitti alti e sbarre alle finestre, solo pazzia, e niente più. E stormi di cacatua riempiono il cielo di ali. Orroroo è ancora più vana, quasi svanita. L’unica cosa degna di nota è un eucalipto gigante che indicano con cartelli vistosi, quasi una speranza, un tenue barbaglio di vita. E poi solo strada, nient’altro che strada.