Il fantasma di Enzo Bettiza

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Un romanzo dello scrittore dalmata mal digerito a Trieste

Ripensando all’opera di Bettiza dopo la scomparsa a novant’anni

di Gianfranco Franchi

 

Lo scorso 28 luglio è venuto a mancare a Roma lo scrittore e giornalista spalatino Enzo Bettiza, autore di numerosi libri di successo, tra cui è opportuno ricordare almeno Esilio (noi lo abbiamo fatto subito sul nostro sito www.ilponterosso.eu con un breve commento di Gianni Cimador). Provvediamo ora a ricordare l’Autore con maggiore ampiezza, grazie alla cortesia di Gianfranco Franchi che ha pubblicato questa recensione del romanzo Il fantasma di Trieste sul suo blog Porto Franco. Il testo è stato scritto per una puntata di RadioRai Friuli-Venezia Giulia, andata in onda a fine 2015.

 

Artista dalmata, spalatino, classe 1927, Bettiza si sente, credo giustamente, “un esule assoluto sia nell’itinerario geografico che nella posizione di isolamento letterario”, nella convulsa e scolorita giostra delle patrie lettere. Non che siano mancate soddisfazioni o riconoscimenti: semplicemente, è mancata una chiara acclamazione popolare, è mancato il saluto da parte di un discepolo o di un erede di successo, o almeno di pari fortuna; è mancato l’abbraccio della sua gente, perché la sua gente è andata dispersa, dispersa nella diaspora intercontinentale che ben sappiamo. Il popolo dalmata è andato così disperso, nell’ultimo secolo e mezzo, che forse ha dimenticato la sua essenza. Già.

Un borghesone dalmata non poteva certo diventare romano o milanese; triestino forse sì, pur con qualche sussiegosa pretesa di distacco e di differenziazione, fondata sull’orgoglio di una diversa, più antica e più gloriosa storia: una secolare, fertile fratellanza con Venezia, una più secolare vicinanza con Costantinopoli, e per finire, nel caso di uno spalatino, addirittura una fondazione imperiale. Tra Trieste e Bettiza, però, s’è scavato un solco mica da ridere proprio sul più bello, quando cioè dopo qualche anno di ambientamento Bettiza poteva diventare uno dei suoi artisti di riferimento, uno dei suoi figli (adottivi) più scintillanti.

E il solco s’è scavato proprio con il libro di cui parleremo in questa puntata, negli anni Cinquanta, Enzo Bettiza appena trentenne, Trieste uscita dall’angosciosa palude del Territorio Libero con le ossa rotte, ma perlomeno italiana: s’è scavato un solco profondo, c’è stato risentimento da tutte e due le parti. Sentite qua. Bettiza veniva da un discreto esordio, il romanzo mezzo autobiografico La campagna elettorale, benedetto da una prefazione di Geno Pampaloni; pochi anni dopo la Longanesi, nel periodo di massimo sfarzo del suo catalogo, investiva sul nostro dalmata e pubblicava il suo atteso secondo libro. Questo. Il fantasma di Trieste è un romanzo storico, ambientato nella città di san Giusto nel 1913, a cavallo tra gli ultimi sbuffi di gloria dell’impero asburgico e il rovescio delle sorti dell’Austria.

È un romanzo storico che racconta la complessità e la peculiarità – cioè la contraddittorietà – della composizione etnica degli irredentisti, italiani o sloveni o missiotti varii che siano, e finisce per rappresentarli a metà strada tra un’armata brancaleone e una brigata di picari “patochi”, e man mano scolora e attenua le pretese di italianità di una città che andava considerata diversa. Già, ma diversa come? Io direi come una “città di fondazione” austriaca in cui comunque predominava la cultura italiana, oppure almeno la fascinazione per la cultura latina e veneziana, in generale, ma in cui la nostra comunità non era più assolutamente egemone da un pezzo, almeno dalla fortunata fondazione del Porto Franco, nel 1719. Trieste si era trasformata, moribonda Venezia, e poi morta Venezia, Venezia dico, da modestissimo porticciolo friulano (friulano, eh già…) di forse quattromila anime in un porto internazionale, clamorosamente multietnico e multireligioso. E aveva addirittura mutuato il dialetto di Venezia, dimenticando il suo millenario tergestino. Per sempre.

E va bene: e torniamo al “Fantasma”. Dunque, che succede? Succede che il momento storico era differente – anni Cinquanta, 1958 per la precisione – e la sensibilità della città era un po’ diversa; succede che a parlar male dei triestini dev’essere sempre un triestino, non certo un dalmata esule a Trieste; succede che l’ambiente letterario è sempre un covo di rancori, di livori e di invidie, perché è povero ma in qualche strano modo influente, e carismatico, e strategico… e il giovanotto di Spalato si stava facendo notare parecchio, e questo magari a qualcuno non andava giù. E allora? Allora…

Nel libro-intervista Arrembaggi e pensieri, scritto da Bettiza assieme a un altro mezzo dalmata, Dario Fertilio, si racconta che Il fantasma di Trieste venne considerato sconveniente da una certa parte della città, e anzi così sconveniente che venne indetta una raccolta di firme contro Bettiza, che pubblicando quel libro aveva sporcato l’immagine dell’irredentismo triestino. Irredentismo triestino che andava sempre trattato come qualcosa di sacro.

Addirittura rimase perplessa una figura moderata come Aurelia Gruber, la figlia di Benco: lei, che aveva ospitato la pubblicazione delle prime prove narrative di Bettiza, preferì affidare la recensione del romanzo a un letterato piuttosto nazionalista che finì per fare a pezzi il romanzo, puntando sulla retorica dei caduti, sulla difesa del sangue versato per restituire un’amministrazione latina all’antica Tergeste, e via dicendo. Non solo. La moglie del direttore del Piccolo, Lucia Tranquilli, promosse una petizione piena di firme per far licenziare Bettiza da La Stampa di Torino; ragione il “tradimento della Patria” (“P” maiuscola) compiuto scrivendo questo romanzo. Possibile? A quanto hanno raccontato Fertilio e Bettiza in Arrembaggi e pensieri, decisamente sì. Si direbbero fededegni.

In compenso, un allora giovanissimo lettore di discreto buon gusto, chiamato Claudio Magris, scrisse una lettera al buon Bettiza dicendo che quel libro era, a suo modesto avviso, “la più importante opera uscita dall’ambiente letterario triestino nel secondo dopoguerra”. E tra i critici letterari italiani più affermati, uno come Carlo Bo seppe riconoscerne le qualità e i talenti; Bettiza poteva potenzialmente essere ascritto alla tradizione dei memorialisti “dinastici”, alla Thomas Mann. E quando Gallimard pubblicò la traduzione francese del romanzo, a un anno e poco più di distanza dalla prima edizione italiana Longanesi, sulla bandella si scrisse: “Questo libro possente e complesso s’apparenta per tanti aspetti al romanzo russo. Esso evoca anche l’arte tutta interiore del grande romanziere triestino Italo Svevo, tanto ammirato da Valéry Larbaud”. Insomma: era Il fantasma di Trieste il romanzo-canaglia sulla brigata irredentista che lottò per rovesciare la gallina con due teste o era un bel romanzo storico, complesso e schierato, ben scritto e ben strutturato? Questo benedetto giovane esule dalmata era un rinnegato, un apostata, magari una spia o piuttosto semplicemente uno scrittore con le palle, profondo e coraggioso, peraltro pieno di stile e per questo fatalmente destinato a restare, almeno nel circuito letterario, sempre un po’ fuori dai giochi?

Il fantasma di Trieste ha avuto, al di là dell’edizione Longanesi, una buona seconda edizione Mondadori, 1985, e un’altra ancora nel 1996; nel frattempo, è stato tradotto in parecchie nazioni europee, e al di là della prestigiosa collocazione parigina in Gallimard vanno ricordate almeno l’edizione austriaca e quella slovena, per ragioni che qui sarebbe didascalico spiegare. In questo momento, Il fantasma di Trieste è però purtroppo altrettanto spettrale, cioè irreperibile, in libreria, e se avete voglia di ritrovarlo, di riscoprirlo, di evocarlo o di curiosare un po’ dove andare per bancarelle, per rigattieri o per biblioteche. Oppure potete scrivere una mail alla Mondadori per domandare una ristampa: sarebbe ora. Oppure, potete andare a chiedere ai vostri amici lettori forti cosa ne pensano. È un esercizio solo apparentemente ozioso. Fatevi raccontare dai vostri amici lettori forti cosa pensano di Bettiza, e cosa pensano di questo romanzo. Il risultato vi restituirà una curiosa mappatura, estetica, politica, antropologica. Mi direte.

Ma intanto, cosa dirvi del protagonista del “Fantasma”? È un ragazzo che ha qualcosa in comune con Bettiza: viene da una famiglia della grande borghesia adriatica, influente e ricca, da generazioni; è stato allevato da una balia serba, una superba balia serba, giunonica e orgogliosamente ortodossa; è nato “bello, desiderato, privilegiato dalla sorte”, e tuttavia è inquieto; tanto inquieto che, neanche ragazzino, bambino, ha fronteggiato il primo richiamo del suicidio, finito per fortuna con tanto spavento e un’ombra di sangue. È un ragazzo che, come Bettiza, mostra crescendo un’aristocratica vocazione all’oscurità; al lavorare silenziosamente per una giusta causa, per un ideale. È un sanguemisto, come Bettiza, che in casa parla per lo più il dialetto veneto. Stop.

È un ragazzo che, diversamente da Bettiza, si ritrova giovane quando l’impero asburgico sta per entrare in guerra; e finisce per perdere l’orientamento quando sente il richiamo della ribellione, e anzi si ritrova tra chi vagheggia attentati a Franz Ferdinand. E così si ritrova a dover mediare tra il radicalismo di alcuni suoi sodali e la sofisticata moderazione di un medico sloveno, piuttosto socialista; si ritrova a doversi guardare dentro in cerca di qualcosa di univoco, di granitico, di esclusivo, di prepotente che tuttavia non c’è; finisce per passare dall’altra parte della barricata, da parecchi punti di vista, nelle ultimissime battute del romanzo, proprio a suggellare la contraddittorietà del suo status; suo, e di Trieste. Basta questo per aver irritato tanti triestini, a suo tempo? Ma no. È che da qualche parte si legge che “in due secoli abbiamo formato dal nulla, dai sassi e dal mare, un pezzo di carne artificiale, un bubbone ch’è diventato uno dei focolai più matti della recente civiltà europea”, abitato da gente venuta da ogni parte del mondo a fondare “una nuova razza d’uomini bastardi e intraprendenti”, tanto che Trieste s’era ritrovata “vero asilo di malfattori”. Oppure, si insiste sull’improbabilità di parlare di nazionalismo a Trieste, “quando noialtri triestini non sappiamo neppure di che sangue, in realtà, siamo fatti e mischiati”; la popolazione ha un carattere “troppo ambiguo, troppo mescolato ed esotico”, e infine… sentite qua: “Per chi non sia nato nelle ambigue, sfuggenti, assurde zone di confine, sarà sempre difficile capire, capire veramente, una certa psicologia morbosa, esaltata, una certa sorda follia cui, in queste nostre difficili zone, soggiacciono anche persone colte e intelligenti e in parvenza equilibrate. I casi di ‘doppia personalità” sono, qui da noi, all’ordine del giorno […]. Ma fin qui nulla di grave. Il fenomeno s’aggrava quando, in un luogo come Trieste, la ‘doppia personalità’ decida di diventare ‘una’, indivisibile e assoluta, quando decida di espellere l’altra parte di sé e di buttarsi tutta da una parte sola. E non può farlo, senza violenza su se stessa. E allora, ecco, si spiegano i numerosissimi casi di nevrastenia politica che allignano in una città come la nostra e che spesso, erroneamente, vengono classificati sotto il nome di nazionalismo. Perché non di questo si tratta, ma d’infatuazione nazionalistica…”.