Accesa o spenta

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La Gorizia di Giovanni Fierro

di Pericle Camuffo

 

L’ultimo poeta a dedicare interamente un libro a Gorizia, è stato Biagio Marin. Il suo Gorizia. Una città mutilata – versione rivista e accresciuta dell’edizione del 1940 – risale al 1956 ed è scritto, però, in prosa. Giovanni Fierro, con il suo nuovo libro Gorizia On/Off copre, in questo senso, un vuoto di sessant’anni: la città isontina è di nuovo protagonista di una silloge. Nella sua novità, anche per quanto riguarda la storia letteraria di Gorizia, il libro di Fierro è però un libro che abbiamo già letto, non perché dica cose già dette, ma semplicemente perché le cose che dice, le poesie che raccoglie, le abbiamo lette, una alla settimana, ogni giovedì, alle 10.10, dal novembre 2016 all’ottobre del 2017, postate su Facebook dall’autore.

Se la poesia di Fierro è decisamente lontana da quella di Marin e dalle prose d’arte con cui il poeta gradese ha composto il suo omaggio a Gorizia, dichiara invece altre vicinanze.

La sfilata di personaggi, con nome e cognome, che attraversa il libro richiama, come sottolinea anche Franco Dugo nella breve introduzione, l’Antologia di Spoon River dove Lee Masters dà voce ad una certa America minima, provinciale e puritana attraverso il racconto, in prima persona, dei suoi morti. Nel libro di Fierro, la differenza sta nel fatto che a parlare non sono i morti ma i vivi, ma simile è “l’occhio del poeta che guarda” che non è, come scriveva Pavese a proposito del poeta americano, un guadare “con compiacenza malsana o polemica, non coll’incoscienza, insomma, pseudoscientifica, […] ma con la consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti, e a tutti fa pronunciare la confessione, a tutti strappa una risposta definitiva, non per cavarne un documento scientifico o sociale, ma soltanto per sete di verità umana”. Ecco allora Michele Bensa che si fida solo delle sigarette, Ada Beltrame che “si domanda se vivere è il morso della piadina / salsiccia, peperoni e cipolla che prima ha dato”, Pierluigi Braini che vorrebbe “fare una treccia con le parole / addio, salve, vita, memoria, pastasciutta, sole e dio” o Serena Cumin che “dei coriandoli lanciati in aria a carnevale, ricorda / la loro sospensione, prima che il volo diventi caduta”. Ed anche qui, come Pavese aveva colto il Lee Masters, “le innumerevoli sconfitte, gli sforzi, le battaglie, le rare vittorie contro la morte, dello spirito contro il caos” sono raccontate in un “potente oggettivismo”, in cui tutto “ è vigorosamente vivo, materiato, in una parola, tutto è poesia”.

Ed è, quella di Fierro, una poesia delle cose, non delle idee, della vita, non dei simboli, che si rifà alla poetica di Allen Ginsberg e dei suoi amici beat – ma il suggerimento e l’esempio erano stati già di Whitman – che rimane, almeno per questo volume, un riferimento costante e continuamente attivato e praticato.

Ed a marcare ulteriormente l’orizzonte culturale nel quale Fierro ha scelto di muoversi con disinvoltura e dal quale ha preso in prestito strumenti d’analisi e di narrazione, c’è la presenza – citata nel libro – di Raymond Carver, del suo ritmo del racconto, delle sue aperture sulla semplicità di ambienti, vite, sentimenti, dei suoi gesti minimi e della sua sensibilità sempre accessibile. E forse, con un minimo di azzardo, potremmo far risalire a Bukowski l’attenzione che Fierro riserva alle gambe delle donne che, in diverse posizioni e forme, trovano spazio tra i suoi versi.

Il libro, diviso in quattro parti o sezioni – che corrispondono ai quattro trimestri di pubblicazione su Facebook perché le poesie vengono presentate nell’ordine cronologico in cui sono state postate – si apre con un verso che è indicazione determinante sia per chi il libro lo ha scritto ma anche per chi lo legge: “Gorizia oggi si divide in due parti”. E dal titolo capiamo che le due parti, in fondo, sono due modalità – ancora, di scrittura e di lettura – ma anche d’esistenza: “On/Off”.

Gorizia è “off” quando si ritrae e diventa sfondo, contenitore per le vite e le storie dei suoi personaggi; quando ascolta e si lascia camminare; quando accoglie la voce degli altri.

Gorizia è “on” quando si fa parola; quando dice le proprie strade e vicoli e negozi, i bar ed i monumenti; quando annuncia le sue sfumature di colori e di odori, quando si fa di pioggia o di sole; quando dice la sua fame e la sua miseria, il suo essere “sempre in ritardo”, “un presepe a cui manca la stella cometa”, un “seme sprecato”, un luogo in cui “per sognare bisogna pagare una multa”, una “laguna di promesse, infedeltà / sigarette comperate in Slovenia e grattacieli”.

È “on” quando si racconta nella sua sporcizia, nel suo essere mal amministrata, quando si vergogna di aver abbandonato in una galleria del centro i richiedenti asilo, gli “uomini venuti da lontano” che “con una coperta inventano un nido”, che “portano con sé la fame e lo sguardo di dove non si vede, / la fuga sui passi, la febbre di ieri e di domani”. Quando rivela la sua policromia etnica e culturale che schizza dai nomi e dai cognomi di molti personaggi che terminano con una k, una j o un ch, a marcare percorsi ed intrecci di confini e frontiere.

Ed è “on”, Gorizia, quando appare anche bella e vivace, “una bambina offesa che alza / la mano, all’esatta e stessa distanza tra Lubiana / e Venezia, e su di una gamba sola sta in perfetto / equilibrio nel centro del suo ultimo silenzio. / Tra il girotondo e il nascondino”.

Questa doppia lettura – e doppia scrittura – scompare quasi del tutto nell’ultima sezione del libro, La curata sicurezza, dove prevale, a spese dei personaggi, l’io narrante, quasi lirico, come in una sorta di necessità, da parte dell’autore, di fare il punto su se stesso, di metterci la faccia, di dire “io sono”, ma non nell’arroganza del possesso, bensì nella tenerezza dell’appartenenza – spesso critica – ad un territorio, ad una città, ad una storia.

Sta a noi, adesso, vivere la nostra appartenenza – di territorio, città e storia – da “accesi” o da “spenti”, in modalità “on” o in modalità “off”.