Orfeo ed Euridice di Gluck

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di Luigi Cataldi

 

Beatrice Benzi, maestro collaboratore di lunga esperienza alla Scala di Milano, ha ammesso durante una trasmissione radiofonica che, a volte, per seguire un’opera senza essere distratta da ciò che avviene sulla scena, chiude gli occhi. Per gioco ho voluto provare anch’io a far così durante la rappresentazione di Orfeo ed Euridice di Gluck, a cui ho assistito lo scorso 21 aprile al Teatro Verdi.

L’opera, va detto, segna una svolta epocale nel cammino del melodramma di tipo metastasiano: ne emenda forme e contenuti, arginando il debordante virtuosismo canoro, semplificando le vicende narrate, dando coerenza alla successione delle scene, riconducendo canto, ballo e scenografia ad una coerente unità drammatica. Merito di circostanze fortunate, che permisero di riunire a Vienna nel 1762, anno della prima, l’avveduto e influente direttore generale degli spettacoli dei teatri viennesi, il conte Giacomo Durazzo (il più deciso promotore della riforma), il poeta Raniero de’ Calzabigi, il più apprezzato dei musicisti della capitale, Christoph Willibald Gluck, il coreografo Gasparo Angiolini, lo scenografo Giovanni Maria Quaglio e, nei panni d’Orfeo, il contralto castrato Gaetano Guadagni.

Ad occhi chiusi ho ascoltato un coro di persone addolorate, che, riunite attorno al sepolcro di lei, piangono la giovane Euridice. Orfeo, il più afflitto, la invoca. Il suo lamento, leggero, quasi di danza, si alterna al coro, grave e funereo, in un’ampia sequenza: «per ogni valle risuona» vivo il nome di Euridice. Musicale «nobile semplicità e quieta grandezza», sul sentiero indicato da Winckelmann (risalgono al 1755 i Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura da cui viene la fortunata espressione appena citata). Giunge Amore e invita Orfeo a recarsi nell’Ade e a ricondurre Euridice nel mondo dei vivi, ma, spiega, l’eroe dovrà trattenere gli sguardi e gli accenti fino all’uscita dagli Inferi. Orfeo teme per le condizioni imposte, ma accetta. Lampi di tempesta che risuonano nell’orchestra suggellano il patto e l’atto.

Confesso di avere a tratti aperto gli occhi e di aver visto qualcosa di diverso. Durante la sinfonia alcuni paparazzi inseguono due divi. Un Orfeo in abito scuro, occhialoni gialli e capelli lunghi, un’Euridice, in veste verde e occhiali scuri, la quale, indispettita, fugge in direzione opposta al consorte. Si alza il sipario. Siamo in uno stanzone spoglio. Alle pareti alcuni dischi d’oro. Al centro una poltrona, vicino una chitarra elettrica. Una folla in abiti sgargianti piange, insieme a Orfeo, Euridice. Giunge Amore: una bionda in abito rosso, con un rosso palloncino a forma di cuore. Il sepolcro (o qualcosa di simile) assente nel primo atto, compare a partire dal secondo, quando Orfeo, superate Furie e Spettri, giunto agli Elisi, vi trova stesa l’amata.

Il regista, Igor Pison (triestino, esordiente al Verdi, una lunga collaborazione con il Teatro sloveno, reduce da Orfeo all’Inferno di Offenbach, Magdeburgo 2022), ha spiegato di essere partito dall’«ombra grigia» di Euridice. L’ha immaginata consumata dai riflettori del jet set e dalla droga, come è capitato a Amy Winehouse e Kurt Cobain. Ma se queste sono le premesse è difficile spiegare il diverbio nell’Ade dei due coniugi e la ragione del lieto fine. Inoltre, dopo il primo atto più chiaramente collocato nel mondo del divismo musicale, la vicenda torna a scorrere in modo tradizionale, con furie e larve in abiti scuri e visi spettrali, verso il fallimento dell’impresa di Orfeo e il lieto fine rallegrato dalla massa di persone in abiti sgargianti (disegnati da Manuela Paladin) a cui ci si è ormai abituati. Non giova alla coerenza dello spettacolo la scena unica (più spelonca bohémienne che dimora lussuosa e Kitsch), sostanzialmente immutata, predisposta da Nicola Reichert, né bastano le luci a connotare i diversi luoghi della vicenda. C’è poi il problema dei lunghi balletti che ebbero alla prima viennese e ancora oggi hanno in partitura grande rilievo. Non avendo il teatro un corpo di ballo, sono stati affidati a due soli ballerini (Alexandru Ioan Barbu e Georgeta Capraroiu) dell’Opera Balet SNG di Ljubljana. Le danze, minuziosamente descritte nel libretto di Calzabigi (di pastori e ninfe che compiono riti funebri e «spengono la face simbolo dell’unione coniugale separata dalla morte», di spettri dell’Inferno, di ombre degli Elisi, di eroi ed eroine festanti per il lieto fine, che riaccendono la face precedentemente spenta) sono state interpretate dal coreografo, Lukas Zuschlag, come libere fantasie ispirate alla musica. Viene così a mancare una chiara relazione col dramma. Scene, luci, balli, regia, dunque, presentano alcuni aspetti discutibili: responsabilità di chi li ha pensati o del teatro che non ha fornito i mezzi finanziari necessari a realizzare il progetto?

Ma lo spettacolo ha avuto anche meriti grandi. Molto si deve al giovane direttore, Enrico Pagano (romano, classe 1995, fondatore a soli 19 anni, ancora studente, dell’Orchestra Canova, composta da amici coetanei del conservatorio, oggi divenuta una compagine apprezzata), che ha guidato con sicurezza l’orchestra del Verdi, rivelatasi validissima interprete dello stile settecentesco, e il coro, ben predisposto da Paolo Longo, eccellente e duttile protagonista nei diversi contesti drammatici (funebre, ultramondano e festoso). L’aria più celebre, che Orfeo intona subito dopo il fallimento dell’impresa, Che farò senza Euridice (III.1), può servire da esempio delle scelte della direzione musicale. Pagano l’ha affrontata assai più lentamente del consueto, prestando attenzione alle parti lacrimose del fraseggio, portando alla luce la disperazione di Orfeo, spesso nascosta dietro la galanteria dello stile, la luminosità della tonalità di Do maggiore e la compostezza formale. Daniela Barcellona (gloria triestina apprezzata sui palcoscenici di tutto il mondo, un repertorio che spazia dal verismo al Settecento, grande interprete di ruoli verdiani e rossiniani, già applaudita come gluckiano Orfeo), vi ha infuso la sua vena più addolorata e profonda. Qui e ancor più nel lamentoso primo atto ha mostrato la compostezza, il sincero dolore, l’umana fragilità di Orfeo. Una notevolissima interpretazione.

Deciso e angosciato è stato invece il taglio dato dal direttore a Che fiero tormento (III.1), con cui Euridice mostra la propria sconvolta percezione di ciò che le sta accadendo. È stata richiamata dall’Ade, ma l’amato che è sceso fin laggiù le impone di seguirla senza spiegazioni e senza guardarla. Si contrappongono il rigore delle leggi cui Orfeo deve obbedire (il giusto, il necessario, il razionale) e la precarietà del sentimento umano (il momentaneo, l’obnubilato, l’incerto). Orfeo si è impegnato a essere parte sovrumana; Euridice è quantomai terrena. Ruth Iniesta (affermata nei principali teatri europei, vasto repertorio d’opera, da Mozart a Puccini, già più volte applaudita al Verdi), rende credibile il dolore e umanissimi i cedimenti della sposa di Orfeo. È misurata nelle fioriture, penetrante nelle espressioni stürmisch, ha buona intesa con l’orchestra, sia per l’equilibrio del volume del suono, sia nello stacco dei tempi.

Olga Dyadiv (soprano ucraino, presenza ormai costante al Verdi), probabilmente seguendo le indicazioni di regia, interpreta Amore sottolineandone la frivolezza, sia nella condotta melodica (in particolare nell’aria di stile pastorale Gli sguardi trattieni, I.2), sia soprattutto nella recitazione. In effetti nell’opera trionfa l’amore, un sentimento quantomai terreno, ma non solo gioioso e frivolo. Nel coro finale, Trionfi Amore, lo si dice «amara catena», si evocano amanti crudeli e tiranne, gelosia che divora: un terreno campionario di affanni amorosi, senza i quali l’amore non trionferebbe.

Una rappresentazione molto applaudita e per molti aspetti assai bella, persino ad occhi chiusi.