Il mito di Fiume

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Un saggio analizza l’impresa di Fiume seguendo ragionamenti, proclami e discorsi di D’Annunzio

di Fulvio Senardi

 

Fra i tanti saggi di varia qualità che hanno accompagnato l’anniversario dell’Impresa di Fiume (c’è addirittura una città che vi ha consacrato un monumento, nascondendo però la vera intenzione nella raffigurazione di un Vate in posa idillica, vestito di panni borghesi e circondato da pile di libri) entra vivacemente nel dibattito Federico Carlo Simonelli, con D’Annunzio e il mito di Fiume. Riti, simboli, narrazioni.

Il saggista rivendica, nell’introduzione, la novità della sua lettura: «l’analisi», dichiara, «si concentra sulla narrazione composta da D’Annunzio a ridosso degli eventi. Attraverso proclami, discorsi e resoconti, egli realizzò ciò che qui viene definito un “poema in diretta”. […] Emerge la figura di un artista poliedrico che si cala nel ruolo di “comandante” per mascherare con la sua narrazione i piani di diversi registi politici. Dalla sua posizione di rilievo, D’Annunzio perseguì con razionalità e spregiudicatezza anche tre obiettivi personali e consequenziali: provocare una campagna per la conquista italiana dell’Adriatico, comporne il poema patriottico e garantirne il futuro riconoscimento istituzionale» (p. 13).

Per parlarne, come a togliermi un sassolino dalla scarpa, inizierò esprimendo due perplessità, di carattere, diciamo così, linguistico (ma, quando si fa storia, scegliere le parole acquista il valore di un atto interpretativo). Simonelli battezza la vicenda fiumana, raccontata tallonando con occhi da segugio i passi del Vate, «poema in diretta». Lo spunto è, mi pare, gramsciano, ed è tratto da un commento apparso sull’«Ordine nuovo» del 4 ottobre 1919: «D’Annunzio preparava e viveva gli argomenti di un futuro poema epico, di un futuro romanzo di psicologia sessuale e di una futura collezione di “Bollettini di guerra” del comandante D’Annunzio. […] Il gesto letterario diventa un fenomeno sociale». Io, per quanto vale, avrei optato (d’accordo su questo con… Francesco Giunta, che così scrive in un articolo del 1920) per “epopea”, perché “poema” sposta l’attenzione sul letterario (a spese dell’attivismo politicizzato del Comandante) e potrebbe far pensare a una progettualità compiuta, cosa che non è nel caso del geniale improvvisatore. Altra obiezione: l’impiego costante (anzi, ossessivo) del termine “irredentista” che se, al limite, funziona per gli annessionisti fiumani, male si adatta a indicare il campo largo dei “nazionalisti” in un dopoguerra che aveva ormai in gran parte risolto il problema delle “terre irredente”.

Detto questo veniamo al merito. Nell’analisi di Simonelli, cha fa entrare in gioco fonti archivistiche, documentarie e giornalistiche spesso trascurate e qui invece sovente affrontate da inedite prospettive, risalta con nettezza la natura e i contenuti del fiumanesimo dannunziano che, al netto di tutto ciò (ed è moltissimo, appariscente e affascinante: l’«orgia eroica», per dire con Nino Valeri) che potrebbe apparire progressista sul piano dell’arte, del costume e perfino della politica, appare una “rivoluzione conservatrice”, molto vicina al fascismo nel suo passaggio di crisi dal “sansepolcrismo” (caratterizzato da un coacervo di pulsioni e valori combattentistici e anche libertari, di impronta nazionalistico-patriottica, e di marcata ostilità verso socialismo, borghesia e Versailles) al fascismo squadrista che, specie dopo l’occupazione delle fabbriche, nel settembre del 1920, accentua il suo profilo di braccio armato del potere di classe (squadrismo urbano e squadrismo agrario).

Ma dunque in che cosa consiste, secondo Simonelli, il nucleo forte, politico-ideologico, del fiumanesimo dannunziano? Lo spirito antiparlamentare e antidemocratico (occorre ricordare le invettive di Sperelli contro  «il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente»?), che prende la forma emblematica di una sedizione militare rivendicata in nome dell’Italia vera, quella delle trincee e di Vittorio Veneto, l’ostilità antisocialista (i socialisti erano stati neutralisti ed erano negatori del valore della Patria e della vittoria), l’esaltazione del Führerprinzip, con un “condottiero” circondato da un’“aristocrazia guerriera” pronta ai suoi cenni e disposta a praticare forme di violenza non dissimili dallo squadrismo (nel trionfo dell’ «autorità paternalistica del ‘duce’», come chiosa Simonelli, p. 103), e che trova per la prima volta attuazione in Italia proprio nella figura del “Comandante”, che si arroga sempre il diritto, anche contro i rappresentanti della città fiumana, il Consiglio nazionale, e pure contro le masse che arringava dal balcone, della inappellabile decisione finale (come per altro previsto anche dall’ordinamento militare da lui voluto). Ed oltre a questo l’imperialismo, quanto allo spazio adriatico (fino a vagheggiare, operando costanti provocazioni, la guerra contro la Jugoslavia di cui si auspicava lo sfaldamento, sull’orizzonte di un anti-slavismo di radice irredentistica e il cui mallevadore fiumano fu Corrado Zoli, sottosegretario agli esteri della Reggenza), la volontà di esercitare un «controllo capillare sulla vita pubblica» (p. 102) adottando la censura e praticando l’espulsione degli indesiderati e interpretando, ma con spirito di intolleranza e mentalità di guerra, confuse ansie palingenetiche e fumosa volontà di rinnovamento, nella certezza assoluta di rappresentare la parte sana dell’Italia, nazione vittoriosa ma tradita dagli alleati di guerra. Inoltre, a sostegno e legittimazione delle pratiche politiche, uno stordente, fumoso ma, considerato nell’insieme, unidirezionale vortice ideologico ed emozionale, che accumula suggestioni comunitarie e para-religiose, con annesso culto dei caduti, delle “reliquie”, della Bandiera, solletica un agonistico spirito di primato (la Grande Italia) e inventa-rilancia miti di facile contagio, i cui materiali costitutivi appartengono all’elitismo fine-secolo, al nazionalismo primo-novecentesco, al combattentismo e all’arditismo. Antiborghese, inoltre, come il fascismo delle origini (nella prospettiva di un “uomo nuovo” che resterà tra i miti più vagheggiati del fascismo intransigente), se per spirito borghese si intende materialismo, attenzione al proprio “particulare” specie in campo economico, inclinazione al compromesso e alla vita comoda, cosmopolitismo, pacifismo e paciosità, conformismo e perbenismo (tanto è vero che i buoni “borghesi” di Fiume, organizzati nel Consiglio nazionale, cercarono, ad un certo punto, di opporsi al Comandante).

Immagino le prese di distanza rispetto a Simonelli di coloro che hanno invece rivendicato al dannunzianesimo un carattere di intrinseca diversità rispetto al fascismo (osservazione corretta ma solo se si intende lo squadrismo del 1921 e del ’22 e il successivo fascismo-regime), sottovalutando quel comune brodo di cultura elitista, antidemocratico, nazionalista e militarista che marca i due movimenti: il fascismo degli esordi e il fiumanesimo dannunziano. Per esempio il Giordano Bruno Guerri, di Disobbedisco, del 2019 (non il solo caso, quello di Guerri, di un presidente della Fondazione del Vittoriale che si innamora del personaggio di cui custodisce i cimeli) che cerca di dimostrare come «il fascismo rifiutò l’essenza della rivoluzione fiumana che era libertaria»  (p. 4), e che Fiume fu una «‘controsocietà’ sperimentale in contrasto sia con le idee che con i valori dell’epoca sia – e tanto più – con quelli del fascismo» (p. 5), espressione di «principi rivoluzionari» (p. 501 – ma ci furono, attenzione, in ispecie nel primo Novecento, tumultuose e vincenti “rivoluzioni conservatrici”).

È un dibattito che dura da mezzo secolo, a partire dall’ambigua D’Annunzio-Renaissance iniziata alla fine degli anni Settanta (la stagione stessa, se posso permettermi, del mio Il punto su D’Annunzio, 1989), e non sarà Simonelli a scioglierne i nodi. A riproporre certi aspetti cruciali del D’Annunzio fiumano, però, forse sì.

 

Federico Carlo Simonelli

D’Annunzio e il mito di Fiume

Riti, simboli, narrazioni

Pacini editore, Pisa 2021

  1. 328, euro 21,00