Il tragicomico ghigno della vita

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di Stefano Crisafulli

 

Albert Camus e Martin Heidegger sarebbero stati orgogliosi del film del regista svedese Roy Andersson, dal titolo bislacco ma significativo: Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Ma forse proprio a loro si è ispirato, se si considera che Camus è uno dei maggiori teorici dell’assurdità dell’esistenza e Heidegger, celebre filosofo tedesco, aveva parlato di ‘essere-per-la-morte’. Nel film di Andersson, infatti, premiato meritatamente con il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2014, la vita assomiglia a una beffarda coazione a ripetere, ad un’assurda concatenazione di nonsense, ad un tragicomico ghigno. In un’atmosfera a metà tra Beckett e Kaurismaki, lo sguardo dello spettatore si aggira tra desolati interni urbani e anonimi esterni, cercando di accompagnare empaticamente l’altrettanto desolante panorama umano che abita la pellicola, senza riuscirci. Forse perché lo specchio deformante rimane comunque indizio fedele di una realtà sulla quale non si vuole riflettere.

La galleria di varia umanità comincia dai due protagonisti, Sam e Jonathan, interpretati rispettivamente da Holger Andersson e Nils Westblom, che ricordano molto la coppia Vladimiro-Estragone del beckettiano Aspettando Godot. Contornati da altri personaggi bislacchi, come la maestra di flamenco infatuata del suo allievo (ma non ricambiata), il venditore di formaggi che ‘si sente gentile’, l’ex capitano che fa il barbiere per caso e il re di Svezia Carlo XII che entra in un moderno bar di periferia a cavallo per bere un’acqua minerale, Sam e Jonathan hanno una missione: ‘aiutare la gente a divertirsi’. E lo fanno da rappresentanti, vendendo ai negozi specializzati alcuni ‘formidabili’ scherzi di carnevale, anche se ristretti essenzialmente a tre articoli: i denti di Dracula (con i canini extra-lunghi…), i sacchetti che, premuti, fanno partire una risata stucchevole alla Joker e la maschera di zio Dentone, indossata regolarmente da Jonathan a guisa di dimostrazione, anche se, tolta la maschera, non è che la differenza si noti così tanto. Certo, la tristezza che emana dalla coppia non aiuta le vendite e questo provocherà anche un clamoroso scisma, poi subito rientrato.

Ma forse sono due le scene che in questo film riescono a smascherare, da una parte, l’ipocrisia profonda dei rapporti sociali, dall’altra la ferocia insita nell’essere umano. La prima è inserita in una serie di brevissimi dialoghi telefonici, il più emblematico dei quali riguarda un aspirante suicida, con la pistola già pronta, che dice a qualcuno, probabilmente un parente: ‘Sono contento che state bene… ho detto che sono contento di sentire che state bene’. La seconda scenetta è preceduta dalla didascalia ‘Homo sapiens’: mentre una donna in camice bianco fa la stessa telefonata già citata, vediamo una scimmia sofferente immobilizzata in un apparecchio che emette scariche elettriche. L’homo sapiens, pare suggerirci Andersson, è capace di crudeltà efferate, ma spesso ce ne dimentichiamo, preferendo ricordare tutto ciò che può fare di meraviglioso. E la morte, in tutto questo? Dovrebbe rendere tragico il destino umano, eppure il regista svedese è beffardo anche su questo punto. Basti vedere il primo dei ‘tre incontri con la morte’: c’è un signore anziano, un po’ robusto, che tenta di stappare una bottiglia di vino per la cena, mentre la moglie è in cucina; il tappo, però, fatica a uscire, tanto che l’uomo, a causa dello sforzo, ha un colpo apoplettico e muore, mentre la moglie, ignara, continua a frullare allegramente del cibo ascoltando musica e cantando. Così è la vita.