SPECIALE SG Giotti traduttore delle fiabe dei Grimm

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di Lorenzo Tommasini

 

 

Quando, nel 1919 dopo la fine della Prima guerra mondiale, Virgilio Giotti decide di tornare a Trieste dal volontario esilio toscano che aveva scelto per non prestare il servizio militare nelle fila dell’esercito austro-ungarico, pur non essendo ancora un poeta affermato ha già al suo attivo il piccolo ma significativo volumetto di poesie Piccolo canzoniere in dialetto triestino. Il suo rientro inaugura un nuovo periodo, intenso e felice, per la vena creativa di Giotti che si accinge a pubblicare il secondo libro, questa volta in italiano, composto in gran parte durante il soggiorno a San Felice in Val d’Ema intitolato Il mio cuore e la mia casa che vedrà la luce nel capoluogo giuliano nel 1920. In questi anni matura più esplicitamente una importante «attenzione ai ragazzi e la sincera partecipazione alla loro esistenza, specie se tribolata, fino a farne i protagonisti della sua poesia» (A. Modena, Virgilio Giotti, Pordenone 1992, p. 31). In qualche misura legato a ciò è probabilmente lo sviluppo dell’interesse di Giotti per le fiabe, collocabile in un arco temporale compreso tra il 1919 e il 1922. Se infatti l’emersione di elementi a vario titolo ascrivibili alla dimensione fiabesca è riscontrabile in diversi punti dell’opera giottiana, anche distanti nel tempo, è nel momento del rientro a Trieste che troviamo testimoniata un’attenzione più diretta, dovuta con ogni probabilità anche alla passione per questi racconti dimostrata dalla moglie Nina, di origine moscovita e grande conoscitrice del patrimonio folcloristico russo e tedesco; e forse collegabile anche alla tenera età dei figli (Tanda nasce nel 1913, Paolo nel 1915 e Franco nel 1919) e al ricongiungimento con l’ambiente della città natale, più direttamente in contatto con il clima culturale d’oltralpe. Ma al di là di tutte le supposizioni che si possono avanzare il dato di fatto importante da rilevare è che in questi anni egli ritorna a più riprese a questo genere, che dovette sentire particolarmente vicino alla propria inclinazione ad un’espressione semplice dei grandi motivi che stanno alla base dell’esistenza umana.

Non è un caso che già nelle pagine de Il mio cuore e la mia casa troviamo per la prima volta una esplicita attestazione di un diretto interesse del nostro autore per la narrazione fiabesca. A concludere il volume viene posta infatti una Fiaba rinarrata che riprende evidentemente la trama di Biancaneve rielaborandola con molteplici spunti personali. L’attenzione verso tale genere narrativo non dovette essere del tutto peregrina se ancora nella seconda raccolta di poesie in lingua italiana, Liriche e idilli, che vede la luce nel 1931, egli decide di inserirvi una sorta di appendice fiabesca nella sezione Commenti, dove troviamo tre poemetti che elaborano in maniera personale altrettanti nuclei tematici ricavati dai testi dei Grimm. Tuttavia anche tali composizioni, pur testimoniando un perdurare dell’interesse per questo genere in Giotti, vanno ascritte all’inizio degli anni Venti.

Frutto di questo breve periodo, particolarmente felice e fecondo sia per la produzione di testi che per l’affinamento stilistico che questi permettono preludendo ad alcune delle maggiori realizzazioni poetiche successive, sono anche alcune interessanti traduzioni. Al Centro studi Virgilio Giotti sono conservati, all’interno di una cartellina dal titolo «Trad. Maerchen dei Grimm. 1922» (cfr. V. Giotti, Opere, Trieste 1986 – d’ora in poi citato come OP –, p. 508), i dattiloscritti con lievi interventi autografi di otto fiabe: due sono tradotte dal russo (probabilmente con l’aiuto della moglie) e sei sono tratte proprio dalla celebre raccolta dei Kinder- und Hausmärchen dei fratelli Grimm. Si tratta dei testi intitolati, secondo la versione giottiana, Il tarabuso e la bubbola (Rohrdommel und Wiedehopf), La volpe e le oche (Der Fuchs und die Gänse), La camicina da morto (Das Totenhemdchen), Gentaccia (Das Lumpengesindel), Il nonno e il nepotino (Der alte Groβvater und der Enkel) e I messi della morte (Die Boten des Todes).

Sono brani in genere piuttosto brevi che raccontano vicende fantastiche d’animali, storie d’astuzia, novelline eziologiche, piccole trame morali che nella loro elementarità narrativa toccano con naturalezza anche i temi capitali dell’invecchiamento e del rapporto con la morte. Probabilmente è proprio questo aspetto ad affascinare il nostro autore, a spingerlo in questo suo interesse e ad ispirarlo nella traduzione. In tutte le composizioni infatti la semplicità della trama si accompagna alla felicità della resa espressiva, nella quale vengono sperimentati consapevolmente alcuni strumenti stilistici e retorici anche di grande efficacia. Siamo senza dubbio lontani dalle vette toccate da Giotti nelle liriche più riuscite, ma anche qui si può intravvedere in controluce una visione poetica pienamente formata che rende tali scritti una parte peculiare ma non isolata della sua produzione letteraria.

Per rendersi pienamente conto di ciò risulta utile ed interessante concentrarsi, almeno brevemente, sulle modalità con cui viene condotta la traduzione. A tal proposito risulta particolarmente significativo l’esempio di Rohrdommel und Wiedehopf (OP, p. 412) sul quale soprattutto concentreremo la nostra attenzione, limitandoci a brevi riscontri da altri testi.

Rispetto all’originale tedesco si possono rilevare diversi interventi ascrivibili a più ambiti. Innanzitutto Giotti cerca di dare un movimento diverso al dettato tendenzialmente semplice del testo grimmiano, grazie ad alcuni artifici intensivi tipici del parlato e a sapienti inversioni. Tale effetto si nota ancora meglio se si confronta il testo giottiano con la classica traduzione che Clara Bovero compose per la collana dei Millenni Einaudi, pubblicata per la prima volta nel 1951. Per esempio la semplice domanda iniziale «Wo weidet Ihr Eure Herde am liebsten?», tradotto letteralmente dalla Bovero con «Dove preferite pascolare la vostra mandra?», viene rafforzato nella traduzione giottiana con «Dov’è che pascolate più volentieri le vostre bestie?» in cui risulta evidente il tentativo di discostarsi dall’ordine lessicale tedesco donando al discorso in italiano una maggior forza e vitalità. Un intervento simile lo troviamo quando, nello spiegare la scelta dell’erba da dare alla mandria, il pastore dichiara «es tut sonst kein gut», reso pianamente dalla Bovero con «se no non fa bene» e che viene invece complicato da Giotti con la locuzione «altrimenti la non giova». Nella stessa direzione espressiva va anche il sapiente uso di alcuni deittici di cui però, volendo, si potrebbe fare anche a meno come nella traduzione di «Hört Ihr dort von der Wiese her den dumpfen Ruf?» che diventa «Ella ode questo richiamo cupo che giunge dai prati?» (trad. Bovero: «Sentite quel grido roco, che vien dal prato?») o in quella di «Das ist der Rohrdommel, der war sonst ein Hirte» reso con «È il tarabuso, che fu già pastore» (trad. Bovero: «è il tarabuso; una volta era un pastore»), dove la frase acquista naturalezza grazie anche al mantenimento del nesso relativo che garantisce l’unità del periodo. La stessa funzione intensificante colpisce anche nella traduzione della sentenza della volpe nella fiaba La volpe e le oche «ihr müβt sterben», che diventa «vi bisogna morire» (OP, p. 413 – trad. Bovero: «Dovete morire»).

Va però rilevato che questa tendenza è parzialmente smentita – ma contemporaneamente anche enfatizzata per opposizione nella sua dimensione microtestuale – laddove l’inversione delle due intere frasi iniziali porta Giotti a rinunciare ad una sorta di avvio della vicenda in medias res, pur presente nell’originale, per privilegiare uno sviluppo meno accelerato. Così «“Wo weidet Ihr Eure Herde am liebsten?” fragte einer einen alten Kuhhirten» diviene «Un tale domandò a un vecchio muccaro: “Dov’è che pascolate più volentieri le vostre bestie?”» (trad. Bovero: «“Dove preferite pascolare la vostra mandra?” domandò un tale a un vecchio bovaro»).

Per quanto riguarda gli aspetti più propriamente lessicali si nota la presenza di diversi toscanismi, favoriti probabilmente dal soggiorno del poeta prima a Firenze e poi a San Felice tra il 1907 e il 1919. È questo il caso, in Il nonno e il nepotino, della domanda «Was machst du da?» resa con la forte ed efficace espressione dal sapore toscano «Che è che fai costì?» (OP, p. 417) che contrasta con l’asettica lezione della Bovero che recita semplicemente: «Cosa fai?»; oppure, per tornare al Tarabuso, dello stesso titolo dove al più comune “upupa” viene preferito il fiorentino “bubbola” che mantiene inalterato tutto il valore onomatopeico, ed anzi lo accresce con il rafforzamento del gioco fonico delle consonanti. Ma non mancano anche latinismi e arcaismi, come nella traduzione di «davon wurden seine Kühe mutig und wild» resa con «e però le sue mucche diventaron fiere e selvagge» (trad. Bovero: «e perciò le sue mucche diventavano forti e selvagge») dove il “però” assume un ricercato valore consecutivo anziché un più comune concessivo. Stesso discorso per un passo de I messi della morte dove «daβ sie nicht mehr Platz haben» è tradotto con «che gli uomini non vi capiranno più» (OP, p. 418) privilegiando il significato meno comune e più desueto del verbo “capire” (trad. Bovero: «che non avranno più posto»).

Ad un altro livello è ancora utile notare come Giotti tenda a sostituire o eliminare alcuni termini superflui per concentrare maggiormente il dettato, così il termine “bestiame” scompare nella frase dedicata all’upupa sostituito dal possessivo: «Der Wiedehopf aber trieb das Vieh auf hohe dürre Berge» viene tradotto con «La bubbola invece menò il suo sui monti alti, tra l’arido», dove va sottolineata anche la resa dell’aggettivo con un sostantivo, tesa a dargli una maggior concretezza (trad. Bovero: «Invece l’upupa menava il bestiame su alte montagne brulle»). Un intervento analogo troviamo anche nella frase successiva «Wiedehopf aber konnte sein Vieh nicht auf die Beine bringen» resa con «La bubbola per contro non riuscì a far rizzare le sue» (trad. Bovero: «L’upupa invece non riusciva a far alzar le sue bestie»).

È inoltre rilevabile la preferenza di alcuni termini intensivi tesi a una maggior resa espressiva nella traduzione. Si tratta di «sprangen ihm davon» reso efficacemente e letteralmente con «gli si slontanarono saltando» (trad. Bovero: «gli scappavano via») oppure, in Gentaccia, di «endlich hackte es mit seinen Sporn so gewaltig auf sie los» che diviene «e la spunzonò così sodo con i suoi speroni» (OP, p. 415 – trad. Bovero: «e alla fine le si avventò contro con gli sproni con tanta violenza») dov’è riscontrabile anche un significativo gioco di riflessi, sia a livello semantico che fonico, tra verbo e sostantivo, seppur divisi dallo spostamento del sintagma avverbiale. Sempre in questa scelta forse non ha giocato un ruolo ininfluente il richiamo dovuto alla vicinanza del nesso consonantico fricativa palatale+occlusiva bilabiale presente nel testo tedesco con quello, ripetuto, fricativa alveolare+occlusiva bilabiale della traduzione. Analogo a quanto appena evidenziato è anche il caso, per tornare nuovamente a Il tarabuso, della scelta del termine «imbrancare» per «zusammenbringen» (trad. Bovero: «radunar») con la concordanza fonica tra originale e traduzione data dalla ripresa del nesso occlusiva bilabiale+vibrante.

Infine, per passare a vedere i diretti interventi autoriali nel testo, sembra utile porre l’attenzione su un deciso, per quanto isolato, esempio in cui Giotti sfrutta un inciso tra parentesi per porvi la traduzione del testo tedesco e poter di conseguenza mantenere l’originale e il relativo effetto onomatopeico. Si tratta della traduzione della formula «Er rief “bunt, herüm” (bunte Kuh, herum)» che diviene «Egli gridò: Bunt, herum! (ciò che vuol dire: variopinte girate)» laddove la Bovero preferisce invece eliminare completamente la precisazione mettendo a testo: «Egli gridava: “Oh, oh, la Rossa!”».

Per motivi di spazio poniamo termine qui alla nostra ricognizione, che pure potrebbe continuare esaminando più nel dettaglio anche altri testi. Già a questo punto però ci si può rendere conto dell’impegno, tutt’altro che occasionale, che Giotti impiegò nel lavoro di traduttore.

In un particolare momento della sua vita egli si sentì rappresentato da tali fiabe e dai temi da esse toccati e decise di impegnarvisi a fondo, mettendoci molto della propria sensibilità linguistica e della sua esperienza di poeta. In questa maniera Giotti va oltre una semplice traduzione: tende piuttosto già a una rielaborazione letteraria personale. Questi testi, in genere finora ignorati dalla critica, andrebbero dunque riletti e riconsiderati, oltre che per la loro intrinseca compiutezza espressiva e vitalità, anche per una piena comprensione del percorso letterario giottiano di questi anni.