Utoya. Una tragedia contemporanea

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Ricostruzione teatrale di una strage dei nostri giorni

di Adriana Medeot

 

Come mai una delle più grandi stragi avvenute nel cuore dell’Europa del XXI secolo è stata rimossa dalla memoria collettiva? Un massacro portato a termine con lucida determinazione, non l’episodico gesto folle della Columbine High School, bensì un progetto pianificato per anni che si prefiggeva un chiaro obiettivo politico. Perché, spenti gli echi delle notizie apparse a caratteri cubitali sui quotidiani di tutto il mondo, non se n’è più parlato?

A queste domande prova a dare delle risposte il giornalista Luca Mariani nel suo saggio-inchiesta Il silenzio sugli innocenti , in cui s’interroga sulle ragioni dell’eccidio di Oslo e Utoya e sui motivi del tardivo intervento delle forze dell’ordine, e da questo libro ha tratto ispirazione la regista Serena Sinigaglia, una delle più interessanti e stimolanti del panorama teatrale italiano, per mettere in scena lo spettacolo Utoya, al Rossetti, dal 31 gennaio al 5 febbraio, dopo il successo ottenuto in luglio al Festival dei due mondi di Spoleto.

“L’inchiesta di Mariani – sostiene la Sinigaglia – mostra i vari sottotesti contenuti in quel fatto. Prima di tutto, con i suoi sessantanove morti, è la più grande strage che la Norvegia abbia mai avuto, e tra le più gravi che hanno insanguinato l’Europa. Poi, Anders Behring Breivik, l’attentatore, non è un estremista islamico, ma uno di noi, di famiglia medio borghese, senza nessun problema sociale e senza nessuna caratteristica che potesse lasciar intravedere il killer che è stato. E quindi il fatto che sia stata una strage politica e che tutta la stampa lo abbia negato.”

È il 22 luglio 2011, alle 15.25 scoppia un’autobomba a pochi metri dal palazzo del primo ministro, nel centro di Oslo. Otto i morti, duecentonove i feriti, ma si tratta di un diversivo. La polizia si mobilita e si concentra nella capitale; due ore dopo il secondo attacco a trenta chilometri di distanza, sull’isola di Utoya, dove si stava tenendo un campus organizzato dalla sezione giovanile del partito laburista norvegese: un uomo apre il fuoco sui ragazzi inermi, senza che nessuno riesca a fermarlo; ne uccide sessantanove e ne ferisce centodieci. Quando la polizia interviene è ormai tardi, c’è stato tutto il tempo per portare a termine l’eccidio. Breivik viene arrestato in flagranza di reato: è un trentaduenne norvegese, alto, biondo, di bell’aspetto, fondamentalista cristiano e vicino agli ambienti dell’estrema destra xenofoba. Al processo, tenutosi nel 2012, dove si presenterà con il saluto nazista, affermerà di aver compiuto tali azioni per mandare “un messaggio forte al popolo, per fermare i danni del partito laburista” e la “decostruzione della cultura norvegese per via dell’immigrazione in massa dei mussulmani”. Riconosciuto sano di mente e unico responsabile viene condannato a ventun anni di carcere prorogabili, ovvero alla massima pena dell’ordinamento norvegese.

La scrittura drammaturgica del testo è stata affidata a Edoardo Erba che ha risolto brillantemente un’impresa ardua, narrando la vicenda attraverso il punto di vista di tre coppie estremamente diverse. La prima, medio-borghese, è formata da un professore universitario socialista e dalla moglie, dissenziente nei confronti delle idee del marito e contraria al fatto che egli abbia imposto alla figlia Christine, un’adolescente viziata dalla madre, di recarsi al campus di Utoya; la seconda da due fratelli contadini, malata lei, un po’ tardo lui, ma non abbastanza da non notare degli strani movimenti nella fattoria vicina, quella in cui vive Breivik; la terza composta da due poliziotti di una piccola stazione sulla terraferma nei pressi dell’isola. Lei alle prime notizie dell’attentato vorrebbe intervenire, mentre lui, che è il suo superiore, la costringe a non muoversi in attesa di ordini dall’alto, nonostante il rumore straziante degli spari che giungono dal campus: ogni sparo un morto in più, un ragazzo che si sarebbe potuto salvare.

Diversi per status sociale, per caratteristiche psicologiche, i sei personaggi sono interpretati magistralmente e con grande sensibilità da due soli attori, Arianna Scommegna e Mattia Fabris, i quali entrano ed escono da un ruolo all’altro, da una vicenda all’altra, senza la necessità di artificio alcuno, a scena aperta, avvalendosi esclusivamente di una straordinaria bravura nel modulare la voce e l’espressione corporea.

La scenografia di Maria Spazzi rappresenta simbolicamente il luogo della strage: ceppi di legno e schegge di vetro a ricordare le giovani vite spezzate, una sorta di cimitero su cui aleggia un’altrettanto spettrale nebbia fitta, ad occultare le colpe di chi ha preferito non agire.

In poco più di un’ora si viene trascinati nella ricostruzione dei fatti attraverso la vita delle tre coppie nel giorno precedente e nel giorno stesso dell’attentato, e un mese dopo. Si viene catturati e coinvolti emotivamente in un crescendo, a cui contribuisce la colonna sonora costituita da rumori di ricetrasmittenti, spari lontani e dal Requiem for a dream di Clint Mansell, la musica che il killer ascoltava in cuffia mentre portava a termine il suo efferato compito, che si conclude alla fine della giornata della strage in un parossismo da tragedia greca, che lascia senza fiato.

Uno degli spettacoli più interessanti di questa stagione, una sferzata per i sensi e per la mente, dopo averlo visto non si può esimersi dal riflettere.