IL MONOPATTINO E LA BAMBOLA

Isabella Flego

IL MONOPATTINO E LA BAMBOLA

Racconto e poesie di Isabella Flego

di Silva Bon

Un dono molto personale e delicato.

Questo è stato il regalo ricevuto recentemente dalle stesse mani dell’Autrice, che mi ha dedicato amicalmente un suo prezioso lavoro, intimo e poetico, che si avvale dell’introduzione critica di Irene Visintini, ed è stato edito qualche anno fa dalla Comunità Autogestita della Nazionalità di Capodistria e dalla Comunità degli Italiani Santorio e Santorio di Capodistria.

Anche la presentazione grafica dell’agile libretto è molto curata: in copertina un’opera di Jože Pohlen, Madre con bambino; all’interno, come emblematica suddivisione visiva tra il racconto in prosa e la susseguente sezione poetica, la fotografia di una scultura lignea, raffigurante un putto, opera dei fratelli Groppelli, Paolo e Giuseppe, che sta a Capodistria nella Chiesa di San Basso.

Sakyamuri è citato: “È caldo avere padre e madre, fratelli e sorelle”. E questa affermazione poetica è il filo conduttore sotteso a tutta la rivisitazione della scrittrice e poetessa Isabella Flego, che con sentimenti di amore, con emozione, parla ai lettori della sua vita infantile, all’interno della sua bella famiglia e all’interno del microcosmo della città mineraria di Arsia.

La sintonia con il mondo intorno, fatto di natura incontaminata e di uomini e donne veri, provati dalla fatica del lavoro e da una dura vita di sacrifici, è totale, così nell’esperienza lontana di lei bimba, come nel riaffiorare dei ricordi di lei persona adulta e matura.

La rivisitazione è dolce e sofferta, e gira intorno al dramma terribile che incrina la gioiosa crescita infantile di Isabella, e fa affiorare nel suo animo giovanile forti scelte di vita: si tratta dell’improvvisa morte del fratellino, ultimo nato, dopo tre sorelle, amato e vezzeggiato da genitori e sorelle, da zii e parenti.

L’impatto con la morte, con i rituali comunitari, con il dolore totale della madre, con l’assenza tangibile nella vita del piccolo gruppo familiare, è tanto più devastante perché si pone in un momento storico particolare, quello della Ricostruzione e della ripresa, dopo i lunghi terribili anni di guerra, la seconda guerra mondiale, con l’occupazione tedesca, il padre partigiano, le privazioni economiche e materiali.

Il Natale del 1945 perciò viene celebrato in famiglia con una particolare gioia, con calore e intimità, con l’apprezzamento pieno di piccole cose ingenue, povere, ma ricche di significati: la casa è pulita da cima a fondo, c’è il simbolo di un piccolo abete, decorato con dolcetti fatti dalla madre, con pigne avvolte nella carta stagnola dalle tenere mani delle sorelle. Ma per il maschietto c’è anche un dono speciale: un monopattino, costruito in casa dal padre, giocattolo desiderato e ambito, conteso anche dai bimbi del vicinato.

Quel monopattino, alla morte del bimbo, l’anno seguente, per volontà della madre affranta, non deve essere più toccato, apparteneva solo a lui, deve essere lasciato in un angolo, fermo, per il rispetto di questa terribile assenza.

Sarà una bambola di pezza, chiamata da Isabella col bel nome di Ottavia, delicatamente posata sul monopattino, come richiesta non espressa, non nominata, di possibili corse, libere e felici, a scuotere la madre dal proprio torpore, dalla propria disperazione, dalla deprivazione e depressione totali, seguite alla perdita del figlio amato. Lei concede a Isabella il gioco del Fratellino, quando finalmente ritorna alla vita.

Isabella Flego apre la sezione poetica con una composizione dedicata al bambino: Il silenzio di Fratellino/ dallo sguardo turchese e bianchi sogni/ volati nella culla della cenere/ è stato un silenzio piccolo/ …/ Fu il silenzio che percepì il mio grido strozzato/ Un urlo dentro/ abituati all’ombra dei ricordi.

Questo libro ha meritatamente ricevuto il “Premio Michelangelo” al Concorso Internazionale di Prosa e di Poesia di Silvano d’Orba, Alessandria.

E ancora una volta fa riflettere sul valore universale della scrittura che affonda le proprie radici nella rivisitazione autobiografica, quando essa è mossa da un “amarcord” non sterile, non occasionale o rituale.

Infatti qui Isabella Flego trae spunto da un humus profondo, sincero, autentico, ricco di positività, che tanto le ha dato, a sostegno indelebile, negli affanni e nelle prove della vita adulta. Il “piccolo mondo antico” non è solo quello della famiglia, unita e amorevole; è anche quello del mondo solidale dei minatori della Valle dell’Arsia:

Là, nella solitudine/ dove batte gelida l’ala dei ricordi/ giace l’amabile valle/ nell’abbraccio dell’Arsa/ ricetto un tempo del pescatore/ ignaro che nella quieta indifferenza del lavoro/ lasciava la piena dei sentimenti/ a rompere gli argini delle acque pescose/ occhio verde suggestivo/ in una corsa in avanti verso l’orizzonte aperto./ Non risuona più la mia valle/ del canto del trenino/ di vita che sembrava eterna.