Solo per ringraziare

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La bella vita del critico d’arte (parte nona)

Anzil Toffolo (1911-2000) e Luciano Ceschia (1926-1991)

di Giancarlo Pauletto

 

Assai più diretti furono i miei contatti con Anzil Toffolo (1911-2000), a partire dalla mostra in cui lo conobbi come artista – e lo intravidi come persona.

Era il 1971, la rassegna fu un’antologica presentata da Mario De Micheli, che lo conosceva bene dal primo dopoguerra per la sua appartenenza al movimento neorealista, del quale il critico fu forse il massimo sostenitore.

In Galleria Sagittaria sfilarono quadri di grande livello, tra i più importanti di tutta la sua vicenda, Pan e soldaz del 1940, Figura femminile del ’44, Ragazzo del ’46, Ritratto di Toni del ’47, Emigrande che suona del ’52, Giorda l’uccellatore del ’62 e poi varie importanti opere di quelli che oggi sono abitualmente definiti “ciclo degli incontri” e “ciclo del grande viaggio”: quadri in cui Anzil prendeva a tema l’uomo inteso non più come protagonista di fatti storici e sociali – i partigiani, i torturati, i fucilati oppure l’operaio, il bracciante, l’emigrante – ma come specie, moltitudine umana errante senza apparente meta tra inganni, mascherature, vessilli ambiguamente alzati al cielo.

Mi colpì la forza dei ritratti, calati in cromie dense, sempre un punto oltre il naturale, sempre miranti all’emblema, al simbolico, a ciò che, oltre la figura, poteva essere l’interiorità della persona, il suo “mistero”: gotico, insondabile.

Ne ho avuta grande riprova pochissimo tempo fa, tra maggio e settembre del 2021, quando in Sagittaria organizzammo la mostra Il Dante di Anzil, per i settecento anni del Poeta.

Accanto alle formidabili tavole, disegnate o dipinte, in cui egli scatenava la fantasia a rappresentare personaggi e climi dell’Inferno – e veramente non credo che, tra le tante imprese d’illustrazione dantesca, ve ne siano molte di paragonabili, per altezza di risultati, a questa – esponemmo in una sala a parte, su perfetto suggerimento di Aulo, figlio del pittore, una decina di autoritratti dagli anni trenta ai primi anni novanta del secolo scorso.

C’era un’assoluta congruità, tra le illustrazioni “infernali” e questi autoritratti, si capiva che tra il tragico, il grottesco, il ferino di quelle illustrazioni e la personalità che si esprimeva negli autoritratti c’era un ponte, determinato dalla volontà di scavare a fondo, di non arretrare davanti alla manifestazione dell’ambiguità e del dolore.

Così io penso che, se uno spettatore ha di fronte a sé l’Autoritratto del 1988 – che blocca tutto lo spazio della tavola con la faccia, e quasi al centro ci sono gli occhi fissi e scrutatori; oppure quello “col falcone” dei primi anni ’90, così impietoso nella sua tesa ambiguità; io penso che questo spettatore comprenda bene che non c’è alcuna contraddizione tra l’artista che – osservando se stesso – li ha realizzati, e chi ha fatto il durissimo Conte Ugolino dantesco, o il Lucifero, quello disegnato come quello dipinto.

Anzil, pur così raffinato, talvolta barocco ed anche eccessivo nei cromatismi e nelle forme della sua  pittura, non è mai “letterario”, tenta sempre l’affondo.

Anche di questo mi resi conto quando si trattò, nel 1990, di realizzare la grande antologica a Villa Varda di Brugnera.

La Villa, recuperata all’uso culturale da Comune e Provincia, si articolava in parecchie sale di non grande dimensione, prospettando così una mostra ben articolata, molto adatta ad esaminare partitamente i vari momenti del lavoro dell’artista che, sempre molto coerente con se stesso, aveva tuttavia affrontato temi diversi e modulazioni stilistiche ben delineate.

Tutto bene, quindi?

Sì, se quando ci riunimmo, assieme ad Aulo, per cominciare a scegliere i quadri, Anzil non avesse dichiarato – per cominciare – che egli voleva esporre non meno di duecentocinquanta opere.

Mi venne quasi un colpo, perché sapevo che non era facile trattare con lui, ed anche Aulo rimase interdetto.

Conoscevo bene lo spazio della villa e avevo calcolato un numero tra i centoventi e i centotrenta quadri: di più, considerata anche la densità cromatica della pittura di Anzil, non sarebbe stata una mostra, sarebbe stato un bazar.

Ma lui ne voleva almeno centoventi di più.

Vi risparmio la varia tiritera attraverso cui io e Aulo cercammo di condurlo a più miti consigli, dirò solo che, davanti alla sua insistenza, mi trovai con le spalle al muro: mi sarei vergognato molto se una mostra del genere – che, nella giusta misura, poteva risultare indimenticabile – fosse passata sotto la mia responsabilità di curatore, e così giocai l’ultima carta a disposizione.

Dissi che, se avesse insistito su quel numero e in quei termini, avrei rifiutato la curatela, avrei lasciato la cosa nelle mani di chi se l’avesse voluta prendere.

Mi costò molto dirlo, anche per l’ammirazione e il rispetto che portavo ad un artista che avrebbe potuto essere mio padre, ma non c’era alcun dubbio che l’avrei fatto.

Se ne accorse anche Anzil, che chiuse la questione quasi gridando: «E allora fate quel che volete!», e se ne andò.

La mostra risultò poi, a giudizio di molti, strepitosa: si era fermata attorno ai centoquaranta quadri, ancora troppi ma, con un allestimento ben mirato, accettabili.

Altre cose avrei da raccontare su Anzil: anche lui, come Pizzinato, mi telefonava ogni tanto perché passassi a salutarlo, cosa che feci non solo in occasione di mostre.

Il più buon risotto che ricordi di aver gustato in vita mia, lo gustai con lui, in una osteria sperduta tra le colline e – sempre a proposito di bella vita – il miglior schioppettino che abbia mai bevuto lo assaggiai nel suo studio, mentre mi faceva vedere una serie di opere che non avevo mai visto, tra cui molti quadri dipinti con il solo nero, che non ricordo di aver mai più  rivisto.

Fui molto lieto di incontrare anche il suo nome, quando, poco dopo il duemila, comperai l’ultima edizione della “Garzantina” dell’arte.

Non che io creda molto a repertori e graduatorie artistiche, ma trovarlo citato, e neppure troppo brevemente, era comunque una conferma della sua importanza di pittore, cosa della quale io, a partire dal 1971 in cui l’avevo visto per la prima volta, non avevo mai dubitato.

 

Luciano Ceschia (1926-1991), dopo  il terremoto del ’76 che gli aveva distrutto lo studio di Coia, suo borgo natale, si era costruito un grande ambiente nuovo a Collalto di Tarcento, e davanti svettavano alcune potenti Verticali, che sono state l’ultima fase della sua invenzione plastica.

Lo conoscevo dall’autunno del 1987 quando, assieme ad Elio Bartolini, fui richiesto di presentare una mostra sua e di Tonino Cragnolini presso il Palazzo della Comunità di Fagagna.

Mostra importante, ma io dell’occasione ricordo soprattutto la cena a quattro che seguì, nella quale fui attento uditore dei miei tre commensali, che mi misero al corrente – tra una chiacchiera e l’altra, con universale divertimento – di tante storie, rivalità, rapporti, amicizie esistenti tra artisti, politici, intellettuali udinesi, fatti di cui solo qualcuno mi aveva sfiorato, passando io la maggior parte del tempo nella Destra, non nella Sinistra Tagliamento.

Ebbi poi incarico, da Luciano, di chiedere a Virgilio Tramontin se avesse voluto partecipare, con una ventina di incisioni, alla sua “festa d’epifania”, incontri che egli organizzava nel suo studio sia per ragioni d’amicizia, come per specifici interessi “diplomatici” legati alla sua attività d’artista.

Virgilio accettò volentieri, e dunque fummo nello studio di Collalto, dove molte persone, inaugurata la mostra, giravano attorno ad una gran pentola di jota che, assieme a pane formaggio salame e altro – più tanto vino, blanc e neri – rallegrava la serata.

Durante la quale lo scultore, ad un certo punto, mi guidò in un angolo appartato dello studio dove c’erano, in cartelle, molti disegni, e parecchie medaglie di bronzo da lui coniate, grandi, bellissime, con versi del Pasolini friulano modellati in rilievo: «Il di al brila tal seil: a è tars/ jeh se tars!», o di altri poeti, come la Achmatova russa, o passi del Vangelo.

Mi esortò a prendere quello che volevo, come ringraziamento per l’aiuto che gli avevo prestato.

Io mi schermivo, ma lui insisteva dicendomi che non solo non gli dispiaceva regalarmi qualcosa ma che, al contrario, ci teneva e così, dopo che già avevo scelto un disegno e una medaglia, egli insistette ancora e ancora, sicché me ne tornai a casa con quattro disegni e tre medaglie, e solo perché, ad un certo punto, mi vergognai della rapina e mi fermai.

Fui anche, un paio di volte, a visitare il suo studio con partecipanti ai corsi di storia dell’arte presso l’Ute di Pordenone. Egli fu sempre un ospite squisito.

Riuscii nel 1998 a realizzare una mostra che avevo in mente da vari anni: mettere insieme una decina di terrecotte di Ceschia con altrettanti lavori, in ferro e in acciaio, di Nane Zavagno e Dora Bassi, nello spazio della Galleria Sagittaria.

Era una mostra che, radunando tre modi assai diversi della scultura contemporanea in Friuli, voleva accennare, come del resto fu scritto in catalogo, alla possibilità di una grandissima rassegna della scultura del Novecento in regione – e bastano alcuni nomi: De Paoli, Canciani, Furlan, Mascherini, Rovan, Piccini, Olivo, Mirko, Dino, Carà, Perizi, Bassi, Ceschia, Zavagno etc. –; accenno che è finora rimasto tale, come diverse altre idee a suo tempo avanzate, ma tant’è: non sono certo il solo a pensare che l’attenzione del Friuli verso la propria arte del Novecento sia molto inadeguata.

Le terrecotte di Ceschia, in quella mostra, erano quanto di meglio egli avesse realizzato negli anni cinquanta e sessanta: vasi scolpiti e maschere di guerrieri, soprattutto mitici animali in cui si incarnava, come scrissi nell’occasione, il suo profondo sentimento della vitalità terrestre, considerata radice e succo della stessa «forza creativa dell’uomo, in uno scambio circolare di energie» che sarebbe sempre stato il sotterraneo tema della sua arte.

Fui poi implicato in altre mostre che presentavano sue opere, disegni e sculture, ma l’iniziativa più importante, quella che avrebbe dovuto ripercorrere tutto il suo lavoro dall’inizio alla fine, e per la quale mi impegnai in un testo molto articolato e ampio, non andò in porto.

Si sarebbe dovuta tenere a San Vito al Tagliamento, un altro testo sarebbe stato di Elio Bartolini e doveva essere stampato un bel catalogo.

Niente da fare, ma non fu fatica sprecata perché mi permise di mettere a punto una lettura della sua opera che è lì, e non si sa mai, magari potrebbe tornare utile.

Chiunque sia interessato a Luciano Ceschia, alla sua scultura, alla sua personalità umana spesso debordante e teatrale, dovrebbe leggere il libro di Tito Maniacco La veglia di Ceschia. Pubblicato dalla Biblioteca dell’Immagine nel 2001, il libro racconta degli amici che si radunano – in una giornata di fredda pioggia ventosa – al bar Commercio di Tarcento, in attesa di salire al cimitero di Coia per le esequie dello scultore, morto in uno dei primi giorni del novembre 1991.

La sua figura è al centro di un discorso ininterrotto attraverso il quale gli astanti lo ricordano, e ricordano assieme a lui fatti e figure della società – non solo artistica – friulana: in modo diretto, critico e, almeno per me, appassionante. Tra altre, efficacissime le pagine nelle quali Maniacco ricorda la subitanea accensione dello scultore quando il discorso, in determinata occasione, cadde sul millenario della città di Udine, e sulla possibilità di erigere, in quel passaggio del tutto peculiare, un grande monumento alla civiltà contadina, un monumento cui nessuno avrebbe potuto opporsi, né società civile, né società politica, né società religiosa, perché il Friuli «ha una storia di campagne, ha una lingua di contadini di cui anche i nobili come Colloredo o la contessa Percoto, i borghesi come Stella o Zorutti possono pur far uso, ma che non è loro, se ne sono appropriati come han fatto di tutto quello che sta e giace su questa terra, da Grado al Coglians, da Sacile a Venzone».

Ed ecco Ceschia tracciare su grandi fogli bianchi, rapidamente, tumultuosamente, la figura centrale, lo stemma di ogni vita contadina, «la uàrzine po’, l’aratro, il vecchio aratro di legno con il versoio di ferro, quello tirato dai buoi, dai cavalli o dal contadino stesso, altro che il trattore della Coltivatori Diretti, la uàrzine».

E dove collocarlo?

Ma nel colle del Castello, «una sorta di gigantesca struttura in cemento armato, altissima, tanto da superare la strada già così larga del giardin grande […] ed infilarsi di prepotenza e di violenza con il vomere dentro il fianco del colle, una violenza contadina e una  tardiva riparazione della storia, ora che la storia del Friuli contadino era finita per sempre e i suoi figli erano diventati una plebe ottusa e bovina, per mille lire in più, come disse Pasolini».

Ceschia era per il “far grande”, ne aveva tutte le capacità, ma gli riuscì veramente una sola volta nella vita, quando inventò il Monumento alla Resistenza per Cividale del Friuli.

 

 

 

Anzil Toffolo

Ragazzo con fionda

olio su tela, 1948